ARCHIVIO Sito Associazione Laima » Conferenza 2013 http://www.associazionelaima.it QUESTO SITO NON È PIÙ ATTIVO, rimane in linea come documentazione storica Fri, 14 Mar 2025 10:18:07 +0000 it-IT hourly 1 Materiali dal convegno http://www.associazionelaima.it/blog/materiali-dal-convegno/ http://www.associazionelaima.it/blog/materiali-dal-convegno/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:31:15 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1736 Lydia Ruyle Art

Lydia Ruyle Art

Il convegno ha lasciato il conto di Laima in rosso e non abbiamo possibilità di pubblicare gli atti. Se ritieni che i materiali resi disponibili qui sotto ti siano utili, ti saremmo grat* se farai una piccola donazione. 

Nei nostri prossimi progetti c’è la traduzione in inglese del video e dei contenuti del sito e la pubblicazione di una linea editoriale per bambine e bambini che sia capace di trasmettere i valori mutuali di una vera alleanza tra femminile e maschile.

Ad oggi puoi trovare gli interventi di:

Mario Bolognese

Francesca Rosati Freeman

Daniela Degan e Marco Deriu

Chiara Zamboni

Alberto Castagnola

Valerie  Melissa Aliberti per il workshop di Luciana Percovich

Morena Luciani

Alessandro Bracciali

Emiliana Losma

Cliccare sui nomi per essere rimandat* agli articoli

 

 

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Foto del Convegno http://www.associazionelaima.it/blog/foto-del-convegno/ http://www.associazionelaima.it/blog/foto-del-convegno/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:30:47 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1726 Foto dal convegno Culture Indigene di Pace. Ri-educarsi alla Partnership

 

Martha Toledo Martinez, esponente del popolo Juhiteco

Martha Toledo Martinez, esponente del popolo Juhiteco

 

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Intervento di Chiara Zamboni http://www.associazionelaima.it/blog/intervento-di-chiara-zamboni/ http://www.associazionelaima.it/blog/intervento-di-chiara-zamboni/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:30:30 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1549  

Lo splendore di avere un linguaggio

Chiara Zamboni

Chiara Zamboni

 

 “Lo splendore di avere un linguaggio” è un’espressione di Luisa Muraro e a sua volta un’espressione di Clarice Lispector. La riprendo anch’io. È un’espressione che mi incanta. In tutto ciò che attrae c’è qualcosa di vero, solo che occorre tempo e pazienza per capire cosa.

Dedico questo lavoro a dipanare il significato di questa espressione.

Sono stata invitata a tenere questo intervento da Luciana Percovich. Mi ha detto il perché. Desiderava che mostrassi che il linguaggio procura molti guai a noi che siamo donne. Non ci fa immediatamente da alleato. E tuttavia che allo stesso tempo è un nostro grande alleato. A prima vista sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è.

Obbediente al mio primo impulso di spiegare “Lo splendore di avere un linguaggio” e in seconda battuta a questo invito di Luciana, parto dalla forza che ci dona il linguaggio, mettendoci però in un ordine che non ci è del tutto favorevole. Una gabbia.

 

Impariamo a parlare da nostra madre o comunque da una donna o uomo a cui siamo da bambine e bambini legati affettivamente, corporalmente. Così che impariamo a parlare in continuità con il corpo materno, con l’affettività che questo comporta. Ma più ci distacchiamo dall’ambito della lingua materna ed entriamo nella lingua condivisa, più quel legame pulsionale affettivo con le parole viene perso. Della lingua avvertiamo soprattutto i codici e le regole. Il peso di questi codici. La lingua che ci aveva aperto affettivamente al mondo ci ritorna attraverso i linguaggi dei giornali, della scuola, delle competenze scientifiche, come uno specchio che ci sottrae l’elemento del godimento, del piacere e risulta per noi normativa. Induce comportamenti. Judith Butler, una filosofa americana, la chiama performativa. Descrivendo la realtà induce comportamenti. Una descrizione non è mai neutra.

È interessante che mentre quando ero piccola io a scuola i testi insegnavano che il babbo lavorava e la mamma era casalinga, ora i bambini (maschi) alle elementari di una mia giovane amica hanno detto, tornando da scuola, che il babbo è stanco perché lavora molto e poi li porta al cinema, sulla mamma a scuola non si dice più molto, perché in un certo senso è scomparsa: il ruolo è molto confuso. È sempre presente ma ha ruoli contradditori. In particolare questa mia giovane amica lavora, ma lavora in casa con la rete, fa da mangiare poco, li porta lei al cinema, non il padre. Non è né emancipata né femminista. I libri di scuola non sanno dare modelli su questa trasformazione femminile.

Ma modelli di emancipazione femminile per la quale una donna è contemporaneamente come un’equilibrista una buona madre, una lavoratrice creativa con la rete, una inventrice di curriculum in cerca di lavoro, una donna bella e affascinante, una dispensatrice di felicità, lo si vede nelle pubblicità.

Se i libri di scuola delle elementari sono in un momento di confusione sulla performatività dei comportamenti femminili, la pubblicità assolutamente no. Suggerisce modelli di acrobazia esistenziale.

Sappiamo bene che il linguaggio non è solo affidato alla grammatica (avvocato e avvocata, medico e medica. In italiano i generi si declinano. Se non lo si fa, è bene chiedersi come mai…) né solo alla semantica, ma alle immagini, ai comportamenti, ai gesti, agli sguardi. La pubblicità ne è un esempio.

Ma anche la televisione. La ministra Fornero piange quando dichiara la necessità dei licenziamenti. I giornalisti e le giornaliste sono scatenati: poteva piangere rispetto ad un atto così duro di cui si assumeva la responsabilità? Sì, no. Durezza e pianto sono segni contradditori. Sono quelli sui quali c’è più confusione e più interpretazione. E in più in una donna…

Su altri atteggiamenti femminili non c’è interpretazione a livello di codici. È scontato che una madre abbia l’istinto materno. E se non ha tale istinto? Allora non è normale. Se esagera, è folle. È matta. Una madre che mette al mondo un bambino, una bambina deve, deve assolutamente avere l’istinto materno. Che è come un fantasma che si aggira in un mondo altro, a cui attingere al momento giusto.

Ora penso sia più chiaro il potere del linguaggio. Il linguaggio, con il corteo di immagini, di gesti, di tonalità della voce con cui è accompagnato, impone certi modelli. Se non li si segue, come minimo ci si sente fuori posto. Come passo successivo, ci si sente in colpa. Se si è effettivamente, radicalmente altrove rispetto a tali modelli, si rischia di essere considerate non normali, un po’ folli. È il linguaggio condiviso che impone questi modelli. La sua forza, il suo potere sta proprio nel suo essere condiviso. Sentiamo lo sguardo degli altri su di noi. È lo sguardo degli altri che dà potere ai modelli linguistici sulle donne. È il senso di colpa che avvertiamo se non corrispondiamo a tale modello. Ci sono donne che si sono suicidiate per questo, perché non corrispondevano al sogno americano della donna felice e realizzata. Penso alla poetessa Silvia Plath, negli anni ‘60. Negli Stati Uniti.

 

Non è solo Judith Butler che lavora su questo nei suoi scritti di oggi, ma già il femminismo degli anni ’70 del Novecento aveva ragionato su questo aspetto del potere del linguaggio nei suoi aspetti normativi sui comportamenti delle donne. Voglio riportare una pagina molto bella di Mary Daly in Al di là di Dio Padre.

Vi leggo un passo un po’ lungo che è a pp. 32 – 33. “Uno dei problemi è che persone, soprattutto donne, apparentemente incapaci di raggiungere un alto livello di realizzazione, sono state rese tali da strutture sociali prodotte dai tentativi umani di creare sicurezza. Chi è alienato dalla propria più profonda identità riceve una sorta di sicurezza in cambio dell’accettazione di identità molto limitate e indifferenziate. Ad esempio, la donna che accetta lealmente il ruolo di “casalinga” può, in certa misura, evitare l’esperienza del nulla: ma evita anche una più completa partecipazione nell’essere, che sarebbe la sua unica vera sicurezza e fonte di comunione. Immersa in un ruolo di questo genere, non può conseguire l’apertura alla creatività. Molte donne in gamba si esauriscono nella lotta per evadere da questi limiti e non arrivano perciò a raggiungere i più alti livelli di scoperta intellettuale o di creatività.

Perché si abbia un inizio di apertura bisogna comprendere il fatto che vi è un conflitto esistenziale tra sé e le strutture che hanno fornito questa sicurezza castratoria; e per far questo occorre affrontare l’urto del non essere con il coraggio dell’essere. Il che significa affrontare le angosce senza nome del fato, che si concretizzano nella perdita del lavoro, degli amici, dell’approvazione sociale, della salute, e perfino della vita stessa. E comprendono pure il senso di colpa per il rifiuto di fare ciò che la società esige, un senso di colpa capace di stringervi nella sua morsa anche  molto tempo dopo essere stato riconosciuto come falso. Infine vi è l’angoscia della mancanza di significato della vita che può talvolta soverchiarci, quando i soliti vecchi significati, ruoli e aspettative sono stati sradicati e apertamente rifiutati ed emergiamo in un mondo privo di modelli. (…) Il coraggio dell’essere è la chiave del potere rivelatorio della  rivoluzione femminista”

Il femminismo ha fatto molto perché le donne non si sentissero sole di fronte ai sensi di colpa, alla angoscia dell’abbandonare modelli sicuri. Ha portato a scambio e condivisione questi aspetti esistenziali. In modo da affrontare assieme ad altre, non da sole il rifiuto di fare ciò che la società esige, nominando in un certo modo piuttosto che un altro il nostro vivere.

Però quello che si comprende da questo testo di Mary Daly è che l’affrontare criticamente e politicamente il linguaggio, aprire cioè conflitti nel linguaggio sulle parole, per cambiarle e dire delle donne cose più in rapporto alla nostra esperienza, è atto necessario, ma non sufficiente. Non sufficiente se non c’è una trasformazione personale. Una capacità di affrontare il non essere dell’andare fuori dai ruoli prescritti dalle parole. Affrontare il niente di prescritto che questo comporta.

Noi siamo abituate/i a pensare che uscire dai ruoli che il linguaggio definisce sulle donne sia facile. Che la libertà sia qualcosa di facile. Ma non è così. La libertà implica un rischio. Implica uscire dalle balaustre sicure delle parole che prescrivono i comportamenti. Affrontare il non essere. Il niente. Certo, per la ricerca di una sintonia con il nostro essere, per un movimento più autentico, più profondo, trasformativo. Tuttavia, ripeto, affrontare il niente non è un passo da poco.

In un libro molto interessante per queste questioni che è intitolato Maglia o uncinetto. Sulla inimicizia linguistico-politica tra metafora e metonimia, Luisa Muraro lo metteva molto bene in evidenza alla metà degli anni ’80. Descriveva la difficoltà di far uscire i suoi studenti delle medie della cintura milanese dai luoghi comuni per i quali l’erba è verde e il cielo è azzurro, mentre fuori dalla scuola l’erba era gialla e il cielo opaco. Prati di periferia.

Ma si poneva la questione che uscire dai luoghi comuni era uscire anche da ciò che poteva dare un’anima. Certo un’anima già confezionata, ma comunque un’anima. Un certo modo di essere definito. E che tuttavia ci dava un vestito visibile agli altri. E a noi stessi.

Uscire dai luoghi comuni significava cadere nel non essere, nel niente di definito e mostrabile. Muraro proponeva allora un altro modo di tessere il linguaggio, più fedele all’esperienza personale. Un linguaggio che sapesse raccontare l’esperienza al prezzo di una sofferenza accettata. Come la ragazzina che racconta della madre che operaia non poteva andare ai gabinetti perché i ritmi di fabbrica non glielo permettevano. E consegnava il compito alla prof piangendo, perché è doloroso dire della vita senza dignità della madre nei ritmi di lavoro. Diciamo, la verità richiede coraggio.

È quello che Mary Daly chiama il coraggio di affrontare il non essere per stare in sintonia con il movimento dell’essere.

 (non essre, essere,forza d’attrazione di Dio –infanzia creativa)

Il testo che ho appena letto è un testo fortemente politico. Ma se vedete bene anche filosofico esistenziale e linguistico. ((terosessuale-omosessuale, vaginale-clitorideo…troppo sguardo maschile e definitorio.)

 

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Rendere visibile l’invisibile. Cura, dono e manutenzione del mondo http://www.associazionelaima.it/blog/rendere-visibile-linvisibile-cura-dono-e-manutenzione-del-mondo/ http://www.associazionelaima.it/blog/rendere-visibile-linvisibile-cura-dono-e-manutenzione-del-mondo/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:15:48 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1622 Workshop di Daniela Degan e Marco Deriu

 

lab.decrescita

In questo laboratorio ragioniamo attorno ad un’idea di cura “estesa”, che non riguarda semplicemente il lavoro di cura della prole o delle persone in difficoltà, ma più in generale ogni attività di presa in carico della manutenzione della vita.

Nelle società umane una grande quantità di lavoro che viene dedicata alla cura delle persone, delle relazioni, delle famiglie e delle comunità, tale lavoro non pagato supera in quantità il totale del lavoro non pagato; eppure tale lavoro non è riconosciuto dall’economia, dalla politica e anche dalla società, perché considerato non produttivo. Anche le persone a cui tale lavoro è sostanzialmente delegato, ovvero le donne, sono poco riconosciute nel contributo enorme che danno al benessere sociale collettivo.

Come uomini dovremmo riflettere sul perché fatichiamo a riconoscere e valorizzare questa enorme mole di lavoro e anche perché non vi prendiamo parte,  se non in minima parte. Il fatto è che quell’idea di homo oeconomicus (di cui ha parlato anche Genevieve Vaughan nel suo intervento) su cui si basa la teoria economica e l’immaginario contemporaneo della crescita è un essere umano scisso dalla vita reale di relazioni, dalla sua stessa natura biologica e dall’ambiente naturale. Le stesse performance economiche e politiche esistono solamente perché i costi dello stare al mondo degli uomini vengono addossati alle donne, alla natura, e anche alle generazioni future. Questo ci parla anche di uno squilibrio tra il valore che attribuiamo al lavoro di produzione e quello che attribuiamo al lavoro di riproduzione.

Marco ha sottolineato che molte ricerche dimostrano che la ricchezza materiale, l’aumento del Pil, oggi non garantiscono affatto la felicità e il benessere come pretendeva la teoria economica. Superata una prima soglia l’aumento della ricchezza non produce affatto felicità ma semmai genera nuovi problemi sociali. Il fatto è che fatichiamo a riconoscere quanto il lavoro di cura, la manutenzione delle relazioni sia centrale nella costruzione del nostro benessere. Nella misura in cui la società della crescita ci distoglie da questa cura di noi stessi, degli altri e delle nostre relazioni sacrifichiamo anche qualcosa del nostro benessere. La cura dunque è un aspetto centrale nella costruzione del benessere che va messo al centro dell’economia e della politica.

Tale cambiamento richiede tuttavia una rivoluzione non solo nello spazio economico ma attraversa la costituzione materiale e politica delle nostre vite e delle nostre relazioni dalle dimensioni più interpersonali a quelle più collettive. Ripartire dalla cura richiede ripensare le relazioni tra uomini e donne e il modo in cui essi hanno inteso rispondere ai bisogni umani, superando opposizioni, dualismi e gerarchie. Particolarmente utile da questo punto di vista è l’analisi complessa che ha proposto Joan Tronto secondo la quale la cura si compone di quattro fasi o, come preferiamo dire noi, di quattro “movimenti”:

- l’interessarsi a [caring about], implica la percezione di un bisogno e il riconoscimento della necessità della cura;

- il prendersi cura di [taking care of], questo secondo movimento contempla l’assunzione di una qualche responsabilità relativamente al bisogno identificato e alla scelta di come rispondervi;

- il prestare cura [care-giving], comporta un impegno e un lavoro concreto per il soddisfacimento dei bisogni di cura e richiede generalmente un rapporto diretto tra chi presta la cura e chi la riceve.

- il ricevere cura [care-receiving], rappresenta il movimento finale di questo processo in cui il destinatario della cura può rispondere e mostrare di giovarsi di questa attenzione oppure no.

Il “prendersi cura di” è spesso associato a ruoli pubblici e maschili e il loro “interessarsi a” è un’interessarsi alle questioni pubbliche, virtualmente universali, mentre il “prestare cura” e il “ricevere cura” vengono associati ai meno potenti. Il prestare cura direttamente è generalmente delegato alle donne e il loro “interessarsi a” è riferito a persone in carne ed ossa nello spazio intimo e privato.

Riconoscere questa complessità e organicità della cura è fondamentale per rieducare uomini e donne al valore della cura superando queste forme di scissione. Gli uomini possono allora imparare a mettersi in gioco nel prestare davvero le nostre cure alle persone che abbiamo intorno a noi o nel nostro lavoro quotidiano. Le donne possono d’altra parte rivendicare queste esperienze di cura come esperienze centrali per dar forma ad una nuova politica e alla manutenzione del mondo.

Si tratta di rilanciare un’idea di cura non meramente individualistica e neppure solamente diadica, ma anche aperta e plurale, un prendersi cura delle relazioni con sé, con le alterità prossime e con le alterità lontane. L’ottima definizione di cura proposta da Fischer e Tronto si adatta benissimo alla nostra prospettiva.

«Al livello più generale suggeriamo che la cura venga considerata una specie di attività che include tutto ciò che facciamo per mantenere, continuare e riparare il nostro “mondo” in modo da poterci vivere nel modo migliore possibile. Quel modo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della vita»[1].

Optare per la decrescita significa per noi prendersi cura del mondo, delle sue condizioni di esistenza, della continuazione della vita sulla terra. In un mondo sempre più globalizzato è chiaro che le forme di benessere o di buon vivere che si affermano in un luogo e in un tempo non sono prive di connessioni (di premesse e di conseguenze) per ciò che riguarda le condizioni di vita di altre popolazioni in altri luoghi o paesi e di altre generazioni nel tempo futuro. Assumere l’orizzonte della decrescita significa far posto all’altro nel proprio mondo, dentro e fuori di sé.

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[1]              Fischer B.M., Tronto J.C., Toward a Feminist Theory of Care, in Circles of Care: Work and Identitiy in Women’s Lives, a cura di Abel E.K. e Nelson M.K., State University of New York Press, Albany, 1990, p. 40; ora anche in J.C. Tronto, Confini Morali. Un argomento politico per l’etica della cura, Diabasis, Reggio Emilia, 2006.

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La società Moso http://www.associazionelaima.it/blog/la-societa-moso/ http://www.associazionelaima.it/blog/la-societa-moso/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:15:05 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1616 La società Moso e le forme di trasmissione del modello matristico

Workshop di Francesca Rosati Freeman

Ake Dama, Francesca Freeman, Federica Carmana, Najin Lacong, Morena Luciani

Ake Dama, Francesca Freeman, Federica Carmana, Najin Lacong, Morena Luciani

 

 

L’invito a organizzare un workshop per il Convegno mi ha portato a fare delle riflessioni e approfondimenti ulteriori sulla società dei Moso che è il centro di miei interessi da ormai nove anni.  L’obiettivo del mio workshop è stato quello di un confronto con una cultura matriarcale che ha preservato nei secoli i valori essenziali del femminile dando luogo a una società che si è familiarmente e socialmente costruita intorno al legame materno, cioè sulla cura e sui bisogni oltre che sulla collaborazione e sulla condivisione.

 

Per il raggiungimento di questo obiettivo, il workshop è stato diviso in due parti: una parte espositiva e una parte di riflessione. Nella prima parte dopo una breve introduzione sulla società matriarcale dei Moso sono passata a descrivere in maniera più particolareggiata la struttura della famiglia che è matrilineare, matrilocale e matrifocale e che ha come guida una donna la cui maniera di gestire non ha niente a che fare con l’autorità e il potere, piuttosto con la condivisione e il consenso.

 

Quella dei Moso è una società in cui la parola potere si potrebbe definire come potenza femminile e materna e mentre nella società occidentale la parola potere viene associata ad abusi, discriminazione e corruzione, nella società moso questa assume il significato di condivisione che unita allo sforzo di raggiungere un consenso decisionale ampiamente condiviso fa della comunità moso una società con un senso del rispetto e dell’uguaglianza assai profondo. Il potere nel suo significato di potenza femminile è affidato alla dabu, la persona anziana che con le sue doti di donna abile e saggia guida la sua numerosa famiglia. Tradurre la parola dabu con capo famiglia, significa associarla inevitabilmente al padre di famiglia, figura che nella struttura familiare moso non esiste.

 

Sia in famiglia che nella società non si può parlare di ruolo femminile e di ruolo maschile, questo significherebbe operare una divisione dei ruoli di genere tipica delle società occidentali e patriarcali. Si può parlare invece di attività e benchè alcune delle attività svolte dagli uomini e dalle donne siano differenti, non esiste assolutamente l’idea che queste siano inevitabilmente associate a un sesso in opposizione all’altro, non esiste un’attività considerata inferiore o superiore a un’altra. Quella dei Moso è una struttura sociale fondata sull’eguaglianza complementare e non sulla gerarchia, per cui pur riconoscendo la diversità biologica, i due generi rimangono in perfetto equilibrio. Questo equilibrio è garantito fin dalla più tenera età attraverso un’educazione gilanica, per usare il termine di Riane Eisler, cioè senza quelle differenze di genere nei giochi e nelle attività, senza quelle disuguaglianze che nelle società patriarcali arrivano a provocare la violenza.

 

Si è poi parlato della relazione di coppia e della libertà sessuale mettendo in evidenza come la separazione della vita familiare dalla vita amorosa e dalla situazione economica ponga i due partner sullo stesso piano eliminando molti dei problemi che fanno esplodere le coppie nelle società patriarcali.

Mentre la partnership è l’elemento fondante della famiglia matriarcale e della società moso dove tutti si aiutano a vicenda creando rapporti di solidarietà all’interno come all’esterno della famiglia, non lo è invece della coppia, che non abitando sotto lo stesso tetto non deve condividere i problemi quotidiani, trovando la reciprocità solamente nel sentimento d’amore e dedicandosi interamente alla bellezza e alla spiritualità dell’accoppiamento.

 

Nella seconda parte, i partecipanti sono stati divisi in piccoli gruppi e a ciascun gruppo è stato assegnato un tema su cui discutere.

Le domande sono state preparate in modo da fare riflettere sui conflitti che caratterizzano la famiglia patriarcale androcratica e la relazione di coppia e trovare non tanto delle soluzioni ai problemi, ma cercare, attraverso il confronto con una cultura diversa, con un modo di vivere diverso dal nostro, di avviare un processo di consapevolezza e di cambiamento non solo verso se stessi ma anche nella relazione con il proprio partner e con gli altri.

 

La pratica del consenso ovvero le decisioni condivise, la famiglia allargata e la relazione di coppia così come vengono intese dai Moso hanno destato molto interesse nei vari gruppi, ma ispirarsi ai valori del modello matristico per poi metterli in pratica implicherebbe un laborioso percorso: l’individuazione di stereotipi veicolati dalla cultura patriarcale e la loro de-costruzione seguita da una ri-elaborazione di sé (del genere: da dove vengo, chi sono e cosa voglio) e dalla ricostruzione di una nuova identità, una nuova immagine di sè da far accettare agli altri.  Penso che questo percorso accompagnato dalla ricerca di una spiritualià che affonda le sue radici nel passato, ma presente nelle società matriarcali ancora esistenti, potrebbero liberarci dai condizionamenti e dalle costruzioni sociali patriarcali che finora ci hanno impedito di vivere, sia nella famiglia d’origine che nella coppia, in una edificante partnership. Il modello socio-familiare-spirituale tradizionale delle società matriarcali ci offre una gamma di valori che potrebbe rendere la nostra vita più armoniosa e pacifica. Finché rimaniamo ancorat* al ruolo che la società ci ha imposto saremo complici del patriarcato.

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La società Moso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dopo il convegno di Torino, l’intervento che non ho fatto http://www.associazionelaima.it/blog/dopo-il-convegno-di-torino-lintervento-che-non-ho-fatto/ http://www.associazionelaima.it/blog/dopo-il-convegno-di-torino-lintervento-che-non-ho-fatto/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:10:51 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1557  di Alberto Castagnola

AlbertoCastagnola

 

Dopo la relazione di Pepe Rodriguez, effettivamente molto tradizionale, non ho potuto che condividere le riserve di Luciana Percovich, e ritengo opportuno precisare ancora di più quali sono i limiti di una analisi di quel tipo, perché è una metodologia molto diffusa e molto pericolosa ( anche se spesso adottata in modo più o meno approfondito in molte sedi accademiche).

In termini logici, cosa viene fatto? Si sceglie un fenomeno (l’agricoltura irrigua o un salto tecnologico), lo si descrive come dovrebbe essere avvenuto in un determinato periodo di tempo e in una regione geografica, e poi si dà come per scontato che quel fenomeno da quel momento è diventato caratteristico dei processi di evoluzione dell’umanità intera. Evidentemente siamo in presenza di un salto logico (spesso giustificato per l’esigenza di contenere le analisi nei limiti di una relazione ad un convegno), per almeno due motivi: a) non è detto che da quel punto e da quel momento il fenomeno si sia diffuso in modo omogeneo (cioè con tempi analoghi e caratteristiche molto simili in tutte le altre regioni geografiche), anzi è probabile che in altre aree esistessero situazioni talmente diverse da generare processi completamente differenti e che coprono periodi non paralleli; b) nel periodo indicato (peraltro in genere comprendente centinaia quando non migliaia di anni) in altre zone possono evolvere culture con altre caratteristiche, che magari esprimono fenomeni di analoga portata, ma che non sono confrontabili con i primi evidenziati.

A parte la mancanza di analisi sincroniche e di confronti a più ampio raggio (che invece, guarda caso, Marija Gimbutas ha cercato di fare, pur non disponendo dei mezzi e delle risorse che sarebbero stati necessari anche all’epoca), questa metodologia presenta dei rischi di particolare gravità in quanto, una volta evidenziati i punti più alti di fenomeni accuratamente scelti, diventa possibile collegarli fra loro ed evidenziare una “storia” che può essere la storia delle popolazioni e delle aree successivamente diventate dominanti; questa pseudo-storia permette di trascurare le restanti parti del pianeta e delle popolazioni considerate meno interessanti.

Se poi i fenomeni prescelti sono selezionati tra quelli che caratterizzeranno nel futuro le istituzioni patriarcali o comunque dominanti (anche geograficamente), il gioco è fatto e le donne sono espulse dalla storia, oltretutto attribuendo alle popolazioni guerriere dei meriti originali che spesso sono solo il risultato di espropriazioni sistematiche di capacità ed arti femminili

Gli esempi per dimostrare la scorrettezza profonda di questa metodologia sono numerosissimi e richiederebbero delle analisi molto complicate per articolare nel tempo e nello spazio fenomeni spesso complessi; mi limito a evidenziare dei casi ben noti. Tutti sanno che le Americhe “entrarono nella storia” solo con Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci; le popolazioni “scoperte” avevano percorso una ricca evoluzione per secoli, ma vennero decimate e spogliate del loro patrimonio culturale prima di poter loro attribuire il giusto valore. Analoghe considerazioni si possono fare per la Cina o per i Vichinghi, sempre restando nella storia che conosciamo. Ma quando si spinge lo sguardo nella preistoria, emergono subito delle culture che attribuivano compiti e valori analoghi a uomini e donne impegnati per lunghi millenni nella sopravvivenza e che avevano raggiunto elaborazioni culturali e spirituali di alto livello ben prima delle irruzioni di altre popolazioni armate e violente. Le ricerche archeologiche più recenti (un esempio: Gobekli Tepe nell’attuale Turchia) evidenziano l’esistenza di luoghi di culto già diecimila anni fa e molto resta ancora da scoprire in periodi che le analisi accademiche hanno per decenni confinato nella più assoluta disumanità.

 

 

Un secondo aspetto mi sembra essenziale sottolineare, anche perché riguarda in particolare la tecnologia, fenomeno che con i dovuti distinguo può essere rintracciato praticamente in tutti i luoghi e in tutte le epoche, ma che è diventato fondamentale negli ultimi decenni. Quando si usa la metodologia volta a individuare i salti tecnologici ritenuti più importanti, è normale che si facciano emergere le scoperte scientifiche e le applicazioni tecnologiche che più hanno caratterizzato uno spazio o un periodo abbastanza definito; ad esempio le auto nel secolo scorso o i telefonini in questo. In questo modo però si evidenziano le tecniche a maggior diffusione (specie se imposte dalla struttura economica dominante), lasciando in ombra quelle contemporanee e magari di maggiore valore scientifico, che però rimangono sconosciute alle masse popolari (forse anche perché non si materializzano in oggetti che possono alimentare un vasto mercato).

L’aspetto più grave però è un altro. Specie nell’ultimo secolo e mezzo, gran parte delle tecnologie (magari con una sfasatura di uno o più decenni) hanno fatto emergere rilevanti danni all’ambiente e per la salute umana, conseguenti alla natura stessa delle tecniche utilizzate. Si pensi alla chimizzazione dell’agricoltura e all’inquinamento delle acque derivanti dai prodotti chimici necessari per la diffusione della cosiddetta “Rivoluzione Verde” (diffusione massiccia di semi ad alto rendimento che però richiedevano fertilizzanti, pesticidi e diserbanti chimici) oppure alla diffusione di residui di plastica sia sulla terraferma che negli ambienti marini (le “isole” di plastica dell’Oceano Pacifico), ma gli esempi sono ormai decine e decine. In altre parole, si evidenzia per prima cosa la “nuova utilità” degli oggetti di largo consumo, ma si trascurano le conseguenze da essi indotte sulla natura e sulla salute di essere umani ed animali; le analisi e la storia sono nuovamente formulate usando schemi che esaltano l’innovazione e l’utilità di ogni tecnologia, mentre non vengono previste o sono accuratamente rimosse le possibili conseguenze per il pianeta e i suoi abitanti.

Anche in questo caso la storia riguarda il sistema economico e le linee di ricerca scientifica dominanti, mentre gli effetti sulla natura e gli esseri viventi sono incredibilmente trascurati e anche quando le notizie relative ai danni e alle distruzioni finalmente emergono, vengono trattate in modo da sminuirne l’importanza e da evitare l’adozione di qualunque misura di salvaguardia (non parliamo di quelle di prevenzione o di radicale bloccaggio delle produzioni, delle quali non vi è ancora quasi traccia).

Quindi se si volesse essere obiettivi e minimamente cauti, la storia delle scoperte scientifiche e delle applicazioni tecnologiche dovrebbe sempre essere accompagnata da informazioni e dati relativi alle conseguenze nefaste che potrebbero accompagnarle. Anche da questo punto di vista, la storia delle donne risente in maniera terribile dell’adozione delle metodologie qui criticate, perché è ormai abbastanza chiaro che nelle ere in cui i valori femminili erano valorizzati e rispettati, gli equilibri con i meccanismi della Natura e la prevalenza delle cure verso gli esseri umani erano garantiti. Negli ultimi secoli, invece, da quando la tecnologia è stata completamente sottratta alle loro mani e al loro controllo, le conseguenze hanno colpito dolorosamente gli esseri viventi e hanno profondamente turbato i meccanismi naturali e le attuali prospettive sono sicuramente ancora più drammatiche.

Credo sia evidente che non si sta elogiando “il buon tempo antico”, in modo cieco e acritico. Invece dovremmo essere tutti molto interessati a ristabilire, nell’immediato futuro, un’incidenza molto maggiore delle visioni e delle relazioni che solo la componente femminile (compresi quindi alcuni uomini sensibili e autocritici) è in grado di elaborare. La manutenzione del mondo è urgente e imprescindibile, se vogliamo evitare di cedere il passo ad altre specie, più in grado di noi di convivere con il Pianeta Terra. Se si accetta questa impostazione, è chiaro che alle donne più mature e sensibili si apre una prospettiva di elaborazione e controllo di tecnologie “dolci”, accuratamente testate in anticipo, selezionate in base al principio di precauzione specie riguardo alla salute, attente al riciclo e al reimpiego e sorvegliate senza sosta per evitare morti bianche ed effetti negativi di lungo periodo.

 

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Relazione di Mario Bolognese http://www.associazionelaima.it/blog/relazione-di-mario-bolognese/ http://www.associazionelaima.it/blog/relazione-di-mario-bolognese/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:09:23 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1551  

dea bambina

 

“ Scendendo nel cuore di ogni parola, assisto alla mia nascita – La madre e la sua “parola bambina” sono fonte, nutrimento e risorsa di relazione gilanica e pensiero dialogante e inclusivo per tutte e tutti noi, nella famiglia umana e cosmica”.  La fiaba di Lìubel , dell’autore, fa parte integrante della relazione.   Sono lietamente a disposizione per scambi di informazioni e di utopie concrete per  progetti di educazione gilanica a partire dal nido.  L’approccio è interculturale e si basa sul    “ pensare poetico” , sui linguaggi della fiaba e sulla cosmicità del disegno infantile.   

 

Nota – la parte discorsiva e bibliografica di questa relazione segue dopo la fiaba.

 

 L     I     U     B     E     L

…una fiaba di Nonna Orsa…

 

…Quando Lìubel, dopo tante avventure, finalmente trovò sua madre sdraiata sull’erba, vicino a una sorgente d’acqua, i suoi occhi  luccicarono  di gioia e  di tristezza. Gioia per averla ritrovata e tristezza  perchè dalla  fonte sgorgava solo un filino d’acqua e  perchè i capelli di quella splendida donna, come lo stesso prato, avevano un colore ingiallito e stanco… Ma Nonna Orsa, intuendo la situazione, la svegliò e la fece ridere…Come era buffa  mentre danzando con Lìubel  agitava le braccia e  i suoi lunghi peli… Così tutte si abbracciarono… E la madre ora sorrideva  grata per quei doni…  E anche il prato si era come risvegliato…Ma se volete conoscere tutta la storia fin dall’inizio del suo girotondo, Nonna Orsa volentieri ve la racconta…

 

… Lìubel, la bimba , piume d’acqua negli occhi e fuoco verde nel cuore,  era giunta  nella  Terra di Mezzo, un regno misterioso sospeso tra i mondi. E in questo luogo amava incontrarsi  con Luna Nascente e con Nonna Orsa.

Lìubel, quando giocava con le amiche, si metteva tra i neri capelli un fermaglio d’argento, a forma di falce, e così  con il  suo corpo di seta e alabastro si divertiva a fluttuare nell’aria  nascondendosi per la gioia di farsi ogni volta trovare… E come una farfalla tra i fiori sorridendo, e a tratti ridendo, emanava soffi di vita e si lasciava permeare dal germinare incessante che la circondava. Luna Nascente portava infatti magìa e Nonna Orsa allegria…

Lìubel amava giocare a nascondino  con mille e mille creature e forme di vita, alcune delle quali vedeva solo lei, perchè anche  sulla sua pelle fiorivano sguardi.

La Terra di Mezzo era come un grande grande nido che ospitava spiriti di bambine e bambini come fossero uccellini e uccelline. Qui si fermavano, magari dopo avere a lungo viaggiato, perchè dovevano riparare, correggere, trasformare o abbellire la loro fiaba.  Magari avevano un po’ dimenticato la musica di certe parole, la danza di alcune immagini e che un uovo, una volta,  le aveva contenute… Anche Lìubel era giunta nella Terra di Mezzo per questo sacro gioco di ridonare bellezza al proprio racconto e lo faceva fondendo  il suo respiro con il nutriente e profumato silenzio  della  natura che la circondava.

Un’antica storia diceva in fatti che ognuno e ognuna, apparendo alla finestrella del mondo, riceveva in dono un semino-fiaba che doveva accudire e far germogliare                                                                                                      E ben presto Lìubel, ricca di mille e mille parole diverse, raccolte spigolando anche nel sottobosco,  aiutava chiunque aveva difficoltà a  ri-tessere il proprio racconto. E Nonna Orsa entrava in gioco  imitando le voci della natura e i movimenti degli animali. Così capivano che le parole erano creature viventi…

Sapevano tutte e tutti gli ospiti della Terra di Mezzo che il viaggio  doveva proseguire verso un altro piccolo caldo nido pronto per loro, da qualche parte del grande cosmo. Ma prima dovevano lavorare sul loro giardino di parole e solo alla fine, con la loro bella fiaba messa a nuovo nel cestino da viaggio, la soglia si apriva… e  il viaggio poteva  proseguire…

E aveva il suo bel da fare Lìubel nel suo lavoro di giardiniera delle parole, anche perchè c’erano differenze tra gli spiriti femmine e quelli dei maschi.

C’era chi giocava con le parole danzando con loro e chi invece  le collezionava per farne ghirlande . Chi ne ascoltava il battito e il respiro e chi le voleva sottomesse…

Leggero era il segreto di Lìubel  per aiutare a  inanellare parole nella grazia di un  racconto: per trovare la  perla  solo consigliava di lasciar  schiudere il cuore con la grazia delle valve di una conchiglia…E mitemente aspettava che ognuno ed ognuna ritrovasse, con lo stupore, il suo passo di danza nel giardino dei tanti e diversi racconti…

A nche lei, lo sapeva bene,  era solo di passaggio ma da molto tempo la sua fiaba di Donna- Pelle -Bambina era pronta e profumata, nel suo bel cestino di erbe intrecciate.

Lìubel, principessa di tanti e diversi sorrisi, se  ogni tanto piangeva per la nostalgia  le sue lacrime, pur nel dolore,  erano rugiada sulle zolle di terra… Sapeva che  doveva andare da sua madre che l’aspettava da tempo… Lo desiderava tantissimo, anche per  per ringraziarla portandole i suoi  regali, ma…Ma colma di generosità, come un pètalo che cerca altri pètali, non voleva partire da sola…

Tredici lune prima infatti sua madre le aveva mandato con uno stormo di civette e colibrì  i suoi doni:  scialli con i colori dell’arcobaleno  e altri due, uno bianco e uno nero. Ogni colore dilatava un gesto, suggeriva un rito,  apriva visioni,    rendeva ritmico il passo e rotondo il pensiero.

E Lìubel indossava , ringraziando il  Grande Mistero, quello bianco all’alba  e quello nero a ogni tramonto.

Attorno a sé aveva già raccolto un piccolo girotondo di spiriti bambine pronte come  lei al passaggio ma il suo istinto le diceva di aspettare  ancora un poco, perchè   forse c’era un’altra creatura che voleva partire.

Infatti durante una mattina splendente di pioggia e di sole Lìubel uscì dalla sua capanna per assaporare la magìa di quell’incanto. “ Che meraviglia!”, si disse,  anche perchè non aveva mai assistito a un evento di quel genere.  In quella zona dove aveva dimora, a oriente della grande foresta, in quel momento la luce aveva riflessi ìndaco e le gocce di pioggia  aprivano un arcobaleno di lùcciole…

Fu allora che vide Pùlcinet, uno gnomino zoppo con l’aria smarrita.  L’esserino si era perso e infatti  stava molto da solo  perchè  gli spiriti bambini degli gnomi non lo invitavano a giocare con loro .  Ritenevano  infatti che a causa della sua menomazione non fosse bravo ad arrampicarsi sugli alberi e a saltare di ramo in  ramo con gli scoiattoli. Era questo infatti il loro gioco preferito… E non solo non lo invitavano ma lo prendevano anche in giro.

Lui, Pùlcinet, si rattristava ma era sempre gentile con loro. E così passava il tempo a girovagare nella grande foresta  sempre con la sua piccola fiaba curiosa di incontri…

Così Lìubel e le  amiche invitarono Pùlcinet a partire con loro.

“ Ma io non sono pronto”, arrossì lo gnomino danzando su se stesso per l’emozione.

La bimba con la pelle di alabastro sorrise e aprì il suo cestino da viaggio. Era vuoto…come

quello delle altre … Ma fu  allora che un vento leggero  avvolse Lìubel donandole  fuoco di stelle,  pèttini d’acqua e capriole di terra. La fiaba era lei…

Ed era Lìubel che ,  danzando con  lo scialle della madre,  aveva   risvegliato e invitato quel vento che ora la rivestiva di seta  e del canto di ogni ninnananna…

Lìubel sorrise e in quell’abbraccio anche gli spiriti bambine si sentirono fiaba. E lo stesso Pùlcinet non era più preoccupato  di aver sbagliato racconto. Anche il suo cestino vuoto era però pieno di mille invisibili semini pronti dolcemente  a germogliare, sognando magari un padre…

Fluttuarono tutte e tutti oltre la soglia, anche Nonna Orsa, con Pùlcinet aggrappato a lei .

Lìubel  ora sapeva, lo sentiva nel cuore, che lontano la splendida sua madre, forse sola, forse un po’ triste, forse con una gran voglia di ridere , la  stava aspettando…

 

 

 

 

 

COMMENTO E INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE-

 

Nota-  Oltre alle citazioni bibliografiche vorrei offrire delle condivisioni, suggestioni e materiale,  anche in senso didattico-educativo, per insegnanti, nonne e nonni, madri e padri e…per chiunque desideri  narrar fiabe per dare ed avere ben-essere…

 

Io sono la tua sposa eterna

la tua bambina dagli occhi grandi e stellati

la tua figlia, la tua padrona

Io sono il fuoco nei tuoi lombi

tua madre, la tua amante

io sono qui, pura sorella

nuda e vulnerabile davanti a te

Io sono la sacerdotessa, la stella

con un piede sulla terra e

un piede in cielo

I miei profumi sono gli oli pesanti

dell’arte arcana.

 

Nella mia mandorla fiammeggiante

mi ritrovo in tutto quel che è tuo

la tua bocca, i tuoi occhi, il tuo sesso

sono miei

Voglio fondermi in una bambina perfetta

una bambina sacra concepita nei luoghi selvaggi

dell’Egitto

perchè ogni incontro con te è uno sposalizio

un’infinita, continua cerimonia.

 

Poesia di Lisa Lion da : “ I nomi della Dea, il femminile nella divinità, di J.Campbell, R.Eisler,  M. Gimbutas  e C. Musès, Ubaldini Editore, Roma,  1992, pag.159”.

 

 

Un albero alto

la luna piccola e bianca

la luce rosa sulle montagne.    ( Rosi Gentile )

 

Comunicazione personale di un’esperienza di poesia in una scuola dell’infanzia di Genova.

La bambina aveva 4  anni.

 

 

…Parola e  nascita…

 

Per seguire le misteriose tracce della bambina, sulla terra della vita, seguo orme di animali. E il tragitto non è mai rettilineo, perchè maestra di questo viaggio è la pitonessa. Altra guida preziosa di questo camminare è la farfalla, sacra alle varie manifestazioni e dimensioni della Dea. Per cui, dopo la fiaba di Lìubel con Pùlcinet, lo gnomino zoppo,  le mie parole  seguiranno  poco le logiche del pensiero lineare,  allacciandosi a collana con l’alfabetiere del “c’era una volta”, quello della madre e della bimba… E di uno gnomino che sta, mitemente, imparando…E’ vero che l’ “origine” della parola è la madre ma in senso poetico e duale.

Poetico perchè il suo corpo-parola si collega, come microcosmo femminile , al macrocosmo della Dea, il…pluriverso…E questo si vedeono nei disegni della bambina e del bambino quelle casette così umane,  sospese tra cielo e terra…

Duale perchè ogni mamma parla, alla figlia e al figlio in…bambinese. Io la chiamo la misteriosa lingua dell’ “ Ucci-ucci”, con l’emanazione dello stesso respiro con cui nasce il flauto delle ninnenanne…                                                                                                                           Ma ogni madre che sente, parla,  co-spira con la figlia/o , dove il corpo rimane “uno” anche dopo il parto, ‘ ha sempre la pienezza della donna adulta ma conservando intatta in sé  la bambina, ricevuta in dono anche da tante nonne-ave…

Per cui anch’io, come genere maschile, ho ricevuto nutrimento cosmo-poetico, e del mio stesso essere al mondo, da una mamma e da un bambina…La Dea bambina…

Per cui  ogni parola, mettendo le mani nella sua “pasta segreta”, è dentro una culla madre che ritmicamente si dòndola con una filastrocca di bimba.

Riporto, in favore di questo prezioso “due” di ogni nascita, per cui di ogni parola, intesa come corpo-respiro che “significa” il mondo, questo delizioso inter-ludio tratto da un libro molto bello e…appetitoso… Dove si racconta di Clèmence, la madre, e di Plectrude, la sua terza  bimba…

“ Nel rapporto tra Clémence e Plectrude, raccontato dalla Nothomb, c’è anche dell’altro. Clémence era stata contenta dell’espulsione dall’asilo perchè così poteva tenersela a casa.Si deve sapere che Clémence  aveva altre due figlie che tirava su con amore ma mantenendosi strettamente nelle convenzioni, invece con quest’ultima figlia che le era piovuta dal cielo avveniva in lei un’incredibile metamorfosi: barattava la sua anima di madre di famiglia con quella di una creatura fatata, “svelava la fata sedicenne e la strega di diecimila anni che teneva nascoste in sé.” Appena tutti erano usciti per andare al lavoro e a scuola, le due si vestivano con abiti sontuosi, ballavano, si  preparavano un pasto a base di dolciumi e sciroppo di orzata. Con Plectrude Clémence si autorizzava a far vivere quella parte sepolta, ma esistente, quello sguardo sul mondo che la bambina aveva perchè era bambina ma che anche Clémence aveva dentro di sé come una sguardo “primo” sul mondo, non tutto già sistemato nelle categorie esistenti, una sguardo da fiaba”.

Insomma si tratta di una madre che pèttina, ma che si fa volentieri anche pettinare i capelli dalla sua bambina… E anch’io non sarei qui  a chiaccherare con voi se mia mamma – poco o molto non ve lo dico – non fosse stata con me anche fata…

 

Tratto dal capitolo: “ C’era , non c’era,  di Vita Cosentino – Federica Marchesini, pag. 24  in : “ Il cuore sacro della lingua, a cura di chiara Zamboni,  autrici  varie, Il Poligrafo, Padova, 2006”.

 

 

…Madre e figlia: il due nell’unità…

 

“ Demetra e Persefone sono talvolta chiamate demetre, un nome che mette in evidenza l’unità della loro divinità. In alcune pitture vasali e nelle sculture talvolta è difficile distinguere che sia la madre e chi la figlia, talmente sembrano simili e tanto stretto è il vincolo che le unisce. In effetti le due immagini rappresentano due versioni di una sola dea: il suo aspetto adulto e il suo aspetto più giovane”. Mi è facile, seguendo un sorriso del cuore, vedere nella “ più giovane” una bambina…

 

Da : “ Le dee viventi, di Marija Gimbutas,  Medusa,  Milano, 2005, pag.  225”.

 

 

…Ancora sulla parola nascente, tessitura di donne, di terra e…

 

Dalla cultura tradizionale dei Dogon africani: “ Dopo la fuoriuscita della placenta, necessaria per poter affermare che il bambino è realmente “ nato”, una delle donne che ha assistito al  parto sputa acqua sul neonato che, al contatto con l’acqua fresca, vagisce: egli ha ufficialmente “ricevuto” la parola. L’accostamento con la tessitura è presente anche nella prima apparizione del verbo: i denti della donna, attraverso i quali l’acqua è stata spruzzata, vengono paragonati ai denti del pettine del telaio che separa i fili e consente la tessitura. Lo sputo, progressivo e ritmato, indica un analogo processo nell’apprendimento del linguaggio”.

E poi concorrono a questo mitico  telaio di ogni umano parlare- maestra artigiana Aracne – la terra, gli altri elementi e anche …l’olio…

“Il corpo della parola è il suono, la materia sonora, formata, come il corpo umano, dai quattro elementi…La terra è l’elemento che dà alla parola il suo peso, il suo significato…La terra differenzia la parola dal rumore…” . Sarebbe troppo lungo citare  l’apporto magico di acqua, aria e fuoco e per questo rimando a questo testo così interessante…( Da anni, fino a questo momento inutilmente, sto proponendo di farne una sperimentazione linguistica , iniziando già dalla scuola materna…) . E sull’ olio che…condisce la parola:      La parola contiene anche olio proveniente da quello del sangue che le conferisce morbidezza e fascino…Il massino d’olio è presente nel canto e nella musica”.

 

La parte riguardante i quattro elementi e l’olio è presa da : “ Il mondo della parola, Etnologia e linguaggio dei Dogon africani, Boringhieri, Torino, 1982,  da pag. 46”. L’altra citazione, sul parto della parole, è a pagina 131 dello stesso testo.

 

 

… I doni della madre…

 

Riprendo dalla fiaba di Lìubel: “ Tredici lune prima sua madre le aveva mandato con uno stormo di civette e colibrì i suoi doni: scialli con i colori dell’arcobaleno e altri due, uno bianco e uno nero. Ogni colore dilatava un gesto, suggeriva un rito, apriva visioni, rendeva ritmico il passo e rotondo il pensiero”. I doni della bimba sono nella sacra farfalla…

 

 

…Rotolandosi sull’erba di un prato, con cuore verde e tra  tanti colori…

 

L’erba, come nella fiaba di Lìubel,  ritorna sorridente anche lei dopo l’aurora di una bella risata…Ecco un brano che parla della magia dell’erba: “ Si pensi, per fare un esempio, alla “ cultura dell’erba” dei popoli africani… Il rituale dell’erba è così diffuso e radicato da far pensare ad una specifica “ psicologica pastorale”. In questi villaggi  le erbe sprizzano una pregnanza simbolica a noi del tutto estranea…Un Masai per chiedere perdono ad un altro può offrire a questi un ciuffo d’erba…Gli etiopici Mao, d’altra parte per dare forza alle loro preghiere rivolte al dio Yeresi raccolgono dell’erba fresca, la sollevano verso il cielo ed esprimono ad alta voce le loro invocazioni”.

Forse si capisce meglio la “magìa dell’erba” pensando al collegamento atavico del mondo femminile con le piante. Ci  ricorda un’antropologa nella sua affascinante ricerca sullo sciamanesimo femminile : “ Ripercorrendo le tappe evolutive della nostra specie abbiamo visto come la diade madre figlio/a  e la raccolta siano state  fondamentali  per la transizione dalle antropomorfe ai primi ominidi. Come citato in precedenza, nelle società di raccoglitori/cacciatori le donne sono e sono state le millenarie conoscitrici delle piante”.

Sul senso “sacro” dei colori nel mondo antico, rimando a un bel libro che cito nella nota.

 

Sui riti africani relativi all’erba : “Magia e psicoterapia , materiali per un’antropologia dell’occulto, di Ruggero Sicurelli, Edizioni GB, Padova, 1990, da pag. 146”.

Il riferimento al verde e ad altri colori è nel testo: “ Donne sciamane, di Morena  Luciani, Venexia, Collana le civette, Roma, 2012, da pag. 93”.

Il bel libro cui ho accennato, molto interessante anche per il significato dei colori – anche in riferimento al disegno infantile- è : “ Il significato dei colori nelle civiltà antiche, di Lia Luzzato e Renata Pompas, Rusconi, Milano, 1988”. Il colore verde da pag. 153.

Mi permetto di ricordare, perchè contiene anche molti riferimenti al colore, il mio testo: “  L’alfabeto di Madre Terra,  sacro e disegno infantile, Edizioni Ananke, Torino, 2012”.

 

 

…Lo sguardo di una bambina…

 

La  poesia  di cui sopra, della piccola Rosi – sembra un hai-ku giapponese… -  mi permette di sfiorare la magìa e l’incanto del “ diventare guardando” dello sguardo infantile.  E di quei racconti, come le filastrocche, che diventano una “ culla dei suoni”…                                                                                            L’ hai-ku etimologicamente significa “ poesia mentre si viaggia” e per questo mi sento di parlare della  “ Gibigianna” sotto i ponti di Venezia . Girovagando ho notato questo barbaglìo che l’acqua del rio proietta sul’arcata inferiore del ponte. Le bambine e i bambini si fermano, come attirati da questi “spiritelli di luce”.  Gli adulti  poco, perchè poco viaggiatori e molto turisti… E la Gibigianna sembra legata alla Dea Diana… Questo “altro”sguardo, un con-tatto, respiro, visione cosmo-poetica, mi parla della Dea Bambina…                                                      So bene che la Dea è unica ma anche Maria Gimbutas ci ricorda che numerologicamente le  sono sacri  i numeri  due e il tre.

Quest’ultima cifra esprime la triplicità della sua manifestazione : nella fiaba Nonna Orsa, la Madre e Lìubel, la bimba.Una e trina insomma. E il tre torna anche nella sua epifania lunare.

Credo infatti, con il cuore e con il pensiero, che Lei, la Dea, nella sua immagine di bimba, sia la dolce maestra di ogni educazione gilanica.

 

“ La linea tripla e il potere del tre” in : “ Marija Gimbutas, il linguaggio della Dea,  mito e culto della Dea Madre nell’Europa  neolitica, Longanesi, Milano,  1989, da pag. 89”.

Sulla Gibigianna, collegata  alla Dea Diana, rimando al “ Il segreto delle filastrocche, di Silvia Goi, Xenia Edizioni, Milano, 1991, pag. 21”.

 

 

…La Dea dell’eterna rigenerazione…

 

Seguendo ancora  il pensiero  della grande archeologa una sua riflessione mi ha accompagna to  verso una rivisitazione della bambina e dei suoi linguaggi. Vorrei infatti riportare le sue parole: “ La fertilità della terra divenne una preoccupazione preminente solo nell’epoca in cui si produceva il cibo; quindi non è una funzione primaria della Dea e non ha niente a che fare con la sessualità… L’altro termine generale prevalente per la divinità preistorica è “Dea Madre”, ed è anche questo un concetto erroneo. E’ vero che vi sono immagini materne e protettrici della giovane vita, e vi fu una Madre Terra e Madre dei Morti, ma il resto delle immagini femminili non può essere rubricato sotto il termine generale di dea madre. Le Dee Uccello e Serpente, per esempio, non sono sempre Madri, né lo sono molte altre immagini di rigenerazione come la Dea Rana, Pesce, o Porcospino, che incarnano i poteri di trasformazione.  Esse impersonano la Vita, la Morte e la Rigenerazione; sono assai più che fertilità e maternità…Le altre  riguardano funzioni della Grande Dea  riguardano la fertilità, la moltiplicazione e il rinnovamento. Si riteneva che il processo del risveglio stagionale, la crescita, l’ingrassamento e la morte apparentassero esseri umani, animali e piante…La fertilità non era la sessualità, era moltiplicazione, crescita,  fioritura”.

 

Marija Gimbutas, il linguaggio della Dea, op. cit.,   pagine  316 – 317.

 

 

…Per un girotondo di  piante e animali…

 

Uccelli, farfalle,  rane, porcospini, serpenti…e l’orsa e tanti altri animali  così presenti nell’immaginazione e nei disegni infantili…Come i fiori…Pensando alla natura e alla ruota vita/morte/ vita di cui parla Gimbutas, vorrei brevemente raccontare di uno stupendo…funerale cui ho assistito anni fa.  La piccola Gertrud, di tre anni, viene a farmi vedere un fiorellino secco che ha in mano. E i suoi occhi sorridenti erano aperti come tutto  il prato che circondava la casa. ..Poi… poi, sempre in silenzio, scava una piccola buca e, con somma delicatezza, interra il fiorellino…morto… poi ricoprendolo…

Pensando a questo rito della bambina come appare…gilanico il pensiero della filosofa Martha Nussbaum che propone, come orizzonte pedagogico, una co-educazione all’immaginazione simpatetica. La poesia  è  la parola bambina, cosmica, leggera e sensuale, come tutti quei fiori corteggiati dalle api-melissai  e dalla sacra farfalla…

Ho citato il disegno infantile perchè  rappresenta un prezioso laboratorio di ricerca eco-cosmico. Informazioni e suggestioni poetiche ma anche concretamente didattiche in : “ L’alfabeto di Madre Terra, sacro e disegno infantile,  op. cit.”.. Il “sacro” di cui si parla  in questo libro è antropologico.

Sull’ orsa -così amata dalle bambine e dai bambini…come “nonna”, orsa e… orsetta -  rimando a un altro gran bel libro di Marija Gimbutas : “ Le Dee viventi, Medusa, Milano, 2005, alle pagg. 44 e 273”.

Un bel “gioco” per bambine- con la partecipazione di bambini, – si può trovare alla voce “orso”in: “ Dizionario degli animali mitologici e simbolici, J.C. Cooper, Neri Pozza Editore, Vicenza,  1997”. Riporto da pag. 243: “ Nel culto di Artemide, signora delle bestie e protettrice degli animali selvaggi, le bambine da  cinque a dieci anni venivano vestite con abiti di colore giallo e prendevano il nome di “orse”, dopodiché imitavano il comportamento degli animali nei  riti della festività delle Brauronie;  così travestite le fanciulle dovevano trascorrere un certo periodo di tempo al servizio di Artemide…”.

Sulla ”poetica” dell’infanzia –  ad esempio la capacità di stupirsi -  consiglio un affascinante piccolo saggio: “ Il genio dell’infanzia, di Edith Cobb, prefazione di Margaret  Mead, Emme Edizioni, Milano, 1982”.

Questo pensiero di Martha Nussbaum l’ho preso da un articolo: “ Repubblica, 22 febbraio 2011”.

 

 

… L’invisibilità della bambina…

 

In una esperienza con bambine e bambini di una prima media ,“ Cresceranno i giganti?”, loro                         hanno scritto, nella relativa pubblicazione, varie “ Regole per non diventare invisibili”: Tra queste: “ Raccontarsi la giornata – Mantenere le promesse -  Fare cose insieme e  Fare sorprese…”.

La “sorpresa”, come una Gibigianna nel quotidiano,  fiorisce nel giardino dello stupore e nella tenerezza di  poter incontrare una spiritella o uno spiritello…

Ma l’invisibilità riguarda molto di più una bambina che un bambino…

In questo mio cammino  più ciclico che lineare , circumambulando  dal padre al  bambino e dal bambino al padre,  con la madre al centro,  mi sono accorto che mi mancava la piccola “altra”. Che forse forse avevo trovato all’ “asilo” -allora si chiamava così  – ma la memoria  purtroppo è molto sfumata…                                                                                                                    Attingendo anche alle risorse mitico-religiose sul “bambino sacro e/o divino” -  ho notato  più  un’assenza che  una presenza… Ad esempio per Gesù c’era il Vangelo Apocrifo della sua infanzia, su Krisna iconografie e racconti , ma sulle Dee, da bambine, quasi nulla… Insomma vedevo nelle chiese solo “ amorini”, angelici , putti ben sessuati ma  un’…amorina…mai…

E allora mi sono messo a cercare, per un bisogno di “giustizia” anche simbolica…

Riporto, sull’ “assenza” questa riflessione di una insegnante: “ Mi  sono messa  da alcuni anni alla ricerca  delle bambine , tentando un  ascolto differenziato di maschi e femmine…Ciò che più inqueta è la mancanza di chiavi interpretative che ci permettano di leggere le sfumature di diversità nel mondo infantile:minacciosamente appiattente quella filosofica ( e mi riferisco all’unica filosofia che si occupa della dualidelle bambine  , tentando un ascolto differenziato di maschi e femmine…

Ciò che più inquieta è la mancanza di chiavi interpretative che ci permettano di leggere le sfumature di diversità nel mondo infantile: insufficiente quella psicoanalitica, gravemente carente quella storiografica, minacciosamente appiattente quella filosofica ( e mi riferisco all’unica filosofia che si occupa della dualità dei generi , il pensiero della differenza) : quasi assente quella scientifica, solo nascente quella pedagogica”.tà dei generi, il pensiero della differenza), quasi assente quella scientifica, solo nascente quella pedagogica”.

Un ordine ( girotondo?) simbolico che comprenda la bambina e la madre assieme?

“ L’imitazione delle bambine e dei bambini, come risposta pratica, ci è culturalmente preclusa, ho scritto…L’esistenza di questa cultura religiosa dell’infanzia non ha però favorito, nella cultura comune, la capacità e il gusto di imparare  dai bambini e dalle bambine”.

 

La prima citazione è tratta da : “ La scuola smemorata, le donne nel labirinto scuola, Atti del Seminario nazionale Udi,  Edizioni cartografiche, Ferrara, 1993, pag. 55”.

Ho preso il secondo riferimento da : “ L’ordine simbolico della madre, di Luisa Muraro, Editori Riuniti, Roma, 2006,  nota 3 pag. 124”.

 

 

…La “presenza” della bambina…

 

“Alessia ha tredici mesi. E’ tonda, soda, colorita, provvista di due gambe corte e solidissime; ha gli occhi azzurri vivaci e mobilissimi ed è quasi pelata…E’ temeraria e avventurosa, si infila sempre in situazioni azzardate…Il segno distintivo del suo carattere è appunto la fiducia. Appena è stata liberata da una situazione problematica, si infila immediatamente in un’altra…Ama il mondo con una passione entusiastica, assapora con intensità tutto quello che le accade intorno, tutto quello che si muove. Pasticcia a lungo con sabbia e acqua, immemore di tutto e di tutti, il visino contratto, stretto, concentrato sulla materia che l’affascina, in una sorta di trance da cui niente la distoglie, incurante di stare seduta sul bagnato, di sporcarsi, tutta sbaffata di sabbia sulla faccia”.

Posso chiedermi con rispetto e tenerezza se la piccola  Alessia gioca così perchè è in  “ girotondo simbolico” con la madre che a sua volta è in connessione,  magari non sempre in modo conscio, (  come nel racconto di  mamma Clémence e bimba Plectrude), con la sua parte  bambina, un aspetto importante della triplice manifestazione della Dea?

 

“ Dalla parte delle bambine, l’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, di Elena Gianini Belotti,  Feltrinelli, 1985, da pag. 50”.

 

 

…La madre “materia sacra”: gioco, cibo e parole  dei “neuroni a specchio”…

 

“ E’ bene rendersi conto della molteplicità e della varietà dei sentimenti che stanno dietro

alle espressioni attinte al mangiare : Mangiare di baci -  Mangiare con gli occhi-  ti mangerei – ma anche : Me lo magio vivo – Mi mangio le mani – Te lo cucino io – Ha inghiottito un rospo – Mastica un po’ di latino – Ha mangiato la foglia – Ha mangiato veleno – Ha sete di sapere – Ha fame di cultura – Il pane dello spirito – Il nutrimento dell’anima – Ha divorato quel libro –

Fa uso di concetti ben digeriti – Quel libro contiene descrizioni piccanti – Quell’altro invece è del tutto insipido – E’ pieno di battute acide – Fa uso di metafore gustose -  Gli innamorati si  sussurrano paroline dolci – Un autore svolge amare considerazioni – Quel tizio è uno che se le beve tutte- Vorrei sapere qual è il sugo della teoria – Il suo articolo è una minestra riscaldata – Questa non la butto giù- Se lo cuoceva a fuoco lento– E’ caduto dalla padella nella brace- Quel tipo è una pappa molle…”…E tante altre frasi di questo tipo presenti nell’articolo..       “E’ un bocconcino di ragazza”, cosa significa? Potrebbe far parte , anche con un’animazione teatrale , di una ricerca linguistica contro la stereotipia e il sessismo implicito o esplicito di tante espressioni e modi di dire.

 

Questa citazione è presa dall’articolo: “ Contro il cibo naturale, un grande storico riflette sul mangiare nei suoi significati materiali, simbolici, rituali e religiosi”, in : “La domenica del sole 24 ore, de24 aprile 2011, pag. 2”.

Un altro godibile testo su quest’argomento, ma ad un altro livello, quello religioso, è: “ Parole da mangiare, di Rubem A. Alves, Edizioni Qiqaion, Comunità di Bose, 1998”.

 

 

…Ancora sulla presenza della bambina…Il suo animismo cosmo-poetico…

 

“ Tornando da casa dei nonni c’era un tratto di strada poco illuminato  in corrispondenza del ponte della ferrovia. Mentre stava per addormentarsi, non essendoci altro da salutare, diceva : “Buonanotte buio, buonanotte cielo” . ( 2 anni e due-tre mesi ).

 

 “ Le prime parole, diario di una bambina, di  Maurizio Lichter,  Edizioni Meltemi, Roma. 1999,  pag. 93”.

 

 

…La bambina è l’anima  del dialogo in famiglia…

 

“ La persona più adatta alla vita relazionale e al dialogo nella famiglia, è la bambina ma

la madre non aiuta la crescita di questo dato fondamentale della soggettività di sua figlia. Non favorisce neanche il rapporto fra due donne né la possibilità per la bambina di avere un modello femminile ideale nella madre per sostenere il proprio divenire. Se vi fosse un’educazione relativa all’identità di genere nella scuola, questo potrebbe aiutare lo sviluppo soggettivo della bambina e quello della madre, che di fatto perpetua gli stereotipi di genere a sfavore del femminile all’interno della famiglia” . ( Luce Irigaray )

 

 Attingo questa  riflessione da : “ Progetto di formazione alla cittadinanza per ragazze e ragazzi, per donne e uomini , di Luce Irigaray– Su incarico della Commissione per la realizzazione della parità fra uomo e donna della Regione Emilia Romagna , pag. 52 “.

La ricerca completa sull’argomento, a partire dalla scuola materna fino al liceo, nel testo, scritto in italiano : “ Chi sono io? Chi sei tu?, di Luce Irigaray, Biblioteca di Casalmaggiore, 1999”. Questa ricerca appare preziosa a vari livelli per un orizzonte di educazione gilanica.

 

 

…La bambina nella famiglia umana e cosmica…

 

Ho sempre pensato che la bambina e il bambino sono vivente poesia  per la “porosità” della loro pelle che respira nel e con il cosmo…Irigaray, cui sono molto grato, mi accompagna ulteriormernte consentendomi, rispetto alla citazione precedente, di parlare della bambina come animatrice di dialogo anche nella “ famiglia” cosmica… Con la poesia del suo gioco/corpo/respiro…

La filosofa ci invita infatti a : “…co-spirare  con l’insieme dell’universo, di giungere a questo senza interruzione. In India si dà un senso alla respirazione assai più spirituale di quello che le si dà in Occidente. La pratica della respirazione  spiritualizza in India,   il corpo qui e ora. Ogni  introduzione nella tradizione dell’India prevede una quotidiana pratica filosofico-religiosa – dello yoga, dei riti, un’alimentazione particolare, dei gesti – e,  se il linguaggio è valorizzato, lo è soprattutto come linguaggio poetico”.

 

Da: “ Il divino fra di noi , domande poste a Luce Irigaray nel corso di un  incontro al centro di studi femministi di Utrecht, a pagina 94. del numero monografico , autrici e autori vari, della rivista trimestrale   Inchiesta, luglio-dicembre 1989,  Edizioni Dedalo, dedicata al “ Il divino concepito

da noi, a cura di Luce Irigaray”.

 

 

… La dea Bambina in Nepal…

 

La “ Kumari” a Katmandu, in Nepal, è una vera e propria Dea bambina scelta all’età di due-tre anni. Siede su di un trono, vestita di rosso, ornata di gioielli e ha disegnato in fronte un grande terzo occhio. Riceve immobile le offerte seduta sul trono, come fosse una statua.

Molto interessante è il riscontro delle 32 perfezioni  “maschili…”che deve possedere il suo giovane corpo: come quelle del Buddha e del cakravartin, il re buddhista.  Annoto infatti che l’undicesima perfezione è un  “petto come quello di un leone” e la trentaduesima “ un corpo robusto”…Numerose sono le restrizioni nella vita di questa bambina:  viene portata a braccia perchè non deve toccare il suolo ( infatti non porta scarpe) e ovviamente non va a scuola. E perde il suo status  naturalmente con le mestruazioni,  ma anche con qualsiasi perdita di sangue, anche a causa di un dente. Per cui il rapporto con il sangue – sopprattutto mestruale- appare centrale in questa consacrazione della “ Dea vivente del Nepal”.

A prescindere da ogni possibile considerazione -ad esempio sul sangue mestruale ritenuto impuro- l’autrice annota nel libro sotto citato, a pag. 26: “ Alla luce di questa lunga analisi, partita da elementi a prima vista  del tutto estranei al simbolismo del sangue,  l’inconciliabilità del sangue mestruale con lo stato “divino” della Kumari appare strettamente connessa alla funzione che la Kumari ha svolto e tuttora in parte svolge nei confronti della regalità nepalese. Il sangue mestruale della Kumari può essere letto come la perdita di una funzione positiva per il lignaggio regale, ovvero la perdita della garanzia di eterno status sacrale ( inteso come non- fruibilità sessuale, non normalità, non umanità) necessario all’enfasi del genos regale”. Ma certamente , aldilà della configurazione storico-politica di impronta patriarcale , penso che questa consacrazione femminile della Kumari alluda a un antico  potere rigenerante e ri-creativo della Dea nel suo manifestarsi come bambina. Il riferimento che  segue accenna  proprio a  questo.

 

“Menarca e perdità dell’identità, Il culto della Dea Bambina in Nepal , di Chiara Letizia”, in : “Mysterium sanguinis, Il sangue nel pensiero delle civiltà dell’Oriente e dell’Occidente, valenze simboliche e terapeutiche, a cura di A.Amadi,  autori vari,  Atti del Convegno Nazionale AVIS, Venezia 7-8 novembre 1998, pag. 15”. Sulla sacralità del sangue mestruale rimando al capitolo: “ “La donna in rosso, il mistero della vita” del libro: “ Donne sciamane, di Morena Luciani, op. cit. , da pag. 73”.

 

 

…Già una neonata è manifestazione della Dea…

 

“ Questa santificazione della creature mediante la rivelazione tangibile della forza generatrice eterna, quale si manifesta nella congiunzione dei sessi,  ha lasciato un’impronta profonda nell’induismo tantrico: ogni bambina è manifestazione della Dea e, in quanto tale, ha la facoltà di evocare le forze procreative della natura…Esiste in India un certo albero che si ritiene non possa germogliare finchè non sia sfiorato dalla mano o dal piede di una fanciulla o di una giovane donna: fanciulle e giovani donne sono considerate incarnazioni umane dell’energia materna della natura…Ogni neonata, ogni vergine e ogni matrona è dotata, secondo l’induismo, di un’aura di sovrumanità, di dignità divina”.

 

“ Ginofobia, la paura delle donne, di W. Lederer, Feltrinelli, Milano, 1973, da pag.142”.

 

…Omaggio alla Dea Nonna…

 

La Nonna Orsa della fiaba, che sa …far ridere perchè suo è il potere di far risplendere il sole mentre piove…, ha un’antichissima dignità mitico-simbolica.  Tanto è vero che è ancora ben presente nella sua nipotina “ orsetta” e nel suo nipotino “orsetto”. Il brano che segue, relativo alla….Dea Nonna… è tratto da: “ Il cuore sacro della lingua,op.cit., pag. 67”.
Una sorella di Nonna Orsa  vive in Brasile: “... ma non si può avere una madre senza avere una nonna, e così arriva Nanã , la nonna di tutti, protettrice delle acque ferme ( laghi e stagni), e delle partorienti…E’ associata alla terra, al fango e alle acque, preferibilmente quella della pioggia. Viene salutata da tutti con la parola Salubà e poi si canta questa zuela  per svegliare le acque:

Nascono dalla terra le erbe

Nascono dagli astri il sole

E la luna che illumina il mondo

Nanã è la nostra nonna

Nanã è la signora delle acque.

 

L’anziana Baubo fa ridere Demetra….Ed è questa risata che crea primavere ( nonna e nipotina in complicità…festosa e rigenerante…). Baudo, secondo Gimbutas, era un altro nome di Ecate e il suo animale era il rospo… Ecate era anche la saggia vegliarda, una personificazione della Dea Terra...                                                                                           

 

Per suggestioni sull’orsa, con vari altri animali, cfr. “ Le dee viventi, Gimbutas, op. cit., da pag.  44”. Su Baudo e sul rospo/porcospino confronta :  “ Il linguaggio della dea, Gimbutas, op. cit., pag. 256”. Su Baubo altre informazioni in : “ Antropologia religiosa, di Alfonso Maria di Nola,  Newton Compton Editori, Roma ,1984, da pag. 23”.  Baubo era appunto la Dea della risata viscerale, “oscena”. Vedi anche in : “ Le donne nei miti e nelle leggende,  Dizionario delle dee e delle eroine, di  Patricia Monagham, Red Edizioni, Como, 1987, voce Baubo .   Nonna Nana è in : “ iI cuore sacro della lingua, op. cit., da pag. 68”.

 

…Con le danze e le risate di Nonna Orsa…

                                                                                                                                                                                                                                                                            La risata, come la festa e la trasgressione rituale ( vedi il carnevale) appartiene alla cultura universale del sacro antropologicamente inteso. Ho citato in questo senso il racconto dell’anziana Baubo che fa ridere Demetra.  Sul senso della pagliaccia/o, del clown e della messa in scena della follìa, riporto questa riflessione: “ Nelle società tradizionali il pagliaccio ha la funzione di aiutare i membri della comunità a non lasciarsi ingannare dalla troppa serietà del rito religioso. In molte società indiane  ancora oggi i pagliacci partecipano dileggiando i presenti alle cerimonie più importanti del calendario religioso”.

 

Da: “ L’immaginazione mitica, la ricerca del senso della vita attraverso il racconto delle mitologie personali, Pratiche Editrice , Il Saggiatore, Milano, 2001, pag. 224”. 

 

“…dite ciò che noi non abbiamo detto

pensate ciò che noi non abbiano pensato

comprendete  ciò che noi non abbiao compreso!”.

 

Da :” testi dello sciamanesimo, UTET,

Torino, 1984, pag. 470”.

 

 

 

Padova, aprile 2013                                               Mario Bolognese

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Intervento di Emiliana Losma http://www.associazionelaima.it/blog/intervento-di-emiliana-losma/ http://www.associazionelaima.it/blog/intervento-di-emiliana-losma/#comments Tue, 11 Jun 2013 21:06:11 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1563  

emi

Qui si fa femminismo e il femminismo radicale è una rivoluzione piena di spirito / Ispirante! Ecco quindi per voi delle ispirazioni per godere di questo convegno. Con un’avvertenza: non m’importa se tutte usiamo le stesse parole. Le parole generano la propria energia. Si muovono molto, specie nel regno dell’inconscio. Le parole sono libere, disponibili, influenti.

 

I concetti che userò sono tratti da libro di Morena Donne sciamane e da quello di Mary Daly, Quintessenza. Realizzare il futuro arcaico.

 

Iniziamo da come vedo questo convegno: Questo convegno è un atto di coraggio magnetico!!! Il progetto delle donne selvagge è quello di trasformare la diaspora [temporale e spaziale] caratterizzata dalla dispersione e dell’emigrazione forzata in Diaspora Positiva ossia una condizione che offre moltissime opportunità originali per inventare nuovi modi di esilio, dispersione e migrazione nella libertà quintessenziale. Vi invito a pensare a questo convegno come a un Congresso Intergalattico dove magnetizziamo / chiamiamo a raccolta le nostre Antenate così come il nostro Essere del passato e del Futuro. Questa grande adunata crea un campo magnetico in cui viene richiamata la Ginergia [ossia l’energia femminile] che fa fare alle viaggiatrici dei grandissimi balzi qualitativi, dando inizio a nuove galassie. E buttandoci a capofitto in una Galassia dopo l’altra, realizziamo altre dimensioni.

 

Requisiti: brama irrefrenabile e pungente desiderio di sapere, di rimembrare e di creare Qui e Ora. Le donne che scelgono di partecipare a questo evento momentaneo di magnetizzazione stanno superando la frammentazione e lo smembramento. Come ci ricorda Morena nel suo libro le donne rischiano spesso di essere ancora imbrigliate nella narrazione patriarcale [new age, anacronismo del dichiararsi femministe]. Le donne si riprendono il diritto di rileggere la propria storia fuori dagli schemi interpretativi, dall’immaginario e dalle logiche gerarchiche e misogine elaborate dal patriarcato. Dobbiamo quindi stare attente ai retaggi culturali del patriarcato e chiederci quanto ne abbiamo assimilato?!!? I retaggi dei sistemi gerarchici sopravvivono nella diffidenza, nelle vecchie divisioni di razza, classe e nazionalità per fare qualche esempio ma anche in quegli studi di donne che optano per una contrapposizione o che vanno all’inseguimento (come ha genialmente intuito la mia amica Sandra) di un modello elaborato storicamente dagli uomini che detenevano il potere. Il potere di narrare anche una storia che non ci rappresenta e che non ci appartiene. Una storia da cui ci dobbiamo liberare.

 

Qualità: astuzia bisbetica e sorellanza ispiratrice, agendo con il doppio taglio del coraggio magnetico: da una parte respingendo chi cerca di ostacolarci e dall’altra attirando potenti alleate che possono aiutarci, dall’altra alimentando una Rabbia in grado di accendere i fuochi della conoscenza appassionata. Se la nostra condizione è quella di estrema oppressione, povertà, esaurimento, isolamento e scoraggiamento, che il nostro Dolore non resti passivo. Che il nostro lamento diventi invettiva. Nominiamo. Creiamo nuovi vortici di forza. Possiamo trasformare il dolore e la tristezza in Rabbia o in qualche altra Passione Vulcanica. Se la pena spinge alla passività, la Giusta Rabbia unita alla Speranza essendo metamorfica spinge all’azione e alla creazione.

 

Effetti: gli atti di vero coraggio femminista elementale radicale sono Rilevanti e Contagiosi. Hanno conseguenze enormi perché aiutano a creare il vasto campo morfogenetico dal quale può emergere la vera Metamorfosi. Questa azione metamorfica porta a un nuovo allineamento psichico di forme di energia. Ci sentiamo libere di agire con coraggio contagioso. Tra noi c’è brama di divenire creativo. Atti creativi originali senza direttive patriarcali. Fine del patriarcato, della sua logica evoluzionista e del suo immaginario che struttura la nostra visione del mondo, le nostre azioni e la percezioni di noi. Compiere atti e produrre lavori che saranno rimembrati dalle donne del futuro perché le antenate del passato, presente e futuro hanno tutte bisogno l’una dell’altra! Ispirare le donne a rispettare il loro Genio. Ampliare il nostro orizzonte per includere un legame trans temporale, tran spaziale e tra-specie nella Sorellanza Elementale. Questi barlumi e intuizioni stimolano atti di coraggio reciproco, contagioso, stimolante e oltraggioso e ci donano la Ginergia per ulteriori Grandi Balzi a Osare! Osare con l’audace originalità e il Fuoco che ci abita!

 

Conclusioni: cosa pensiamo di fare in questi giorni? Rimembrare la nostra storia, anticipando il Rigoglioso Futuro che ci aspetta. Più sappiamo chi siamo, più grandi possono essere i nostri Balzi. Creare Magia Magnetica che è presenza in espansione: veniamo attirate le une verso le altre. Insieme possiamo magnetizzare, irradiando un’attrazione elementare contagiosa verso donne di generazioni future e abitanti in luoghi diversi che è reciproca e stimolante.

Le onde del Femminismo sono Vulcaniche: le nostre nuove visioni sono esplosioni di conoscenza del profondo passato! Quindi narrare il nostro passato ginocratico equivale ad attivare il potere della magia magnetica tra donne e a ispirare Atti di Coraggio Oltraggioso contro le istituzioni del Patriarcato.

 

Ps. Concludo con una Previsione altrettanto Coraggiosa e Oltraggiosa: Mary Daly pone il 2018 come anno di inizio dell’Era Biofila opposizione alla necrofilia patriarcale… siamo vicine!!

 

Pps. Aggiungo il motto che ormai da più di un anno accompagna il mio rapporto con Morena e che è diventato il motto sulle magliette realizzate per il convegno “Yes we baaaaaam!”

 

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Psiche Ri-membrata http://www.associazionelaima.it/blog/psiche-ri-membrata/ http://www.associazionelaima.it/blog/psiche-ri-membrata/#comments Tue, 11 Jun 2013 20:59:38 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1555 di Valerie Melissa Aliberti 

Una nuova versione del mito di  Amore e Psiche  scritta da Valerie Aliberti per il seminario di Luciana Percovich

 

Illustrazioni di Marianna Marigo

Illustrazioni di Marianna Marigo

C’era una volta una bimba di nome Psiche, vivace e gioiosa, di grande bellezza.

Amava profondamente correre nei campi, all’aria aperta, sempre col nasino all’insù per seguire le nuvole nel cielo.

Giocava, da sola o con altri bambini, rincorrendo qualsiasi tipo di animale che fosse insetto, lepre o farfalla, e poi ne imitava movenze e versi. Non c’era animale nel quale Psiche non si sapesse trasformare.

Psiche aveva anche due sorelle, un po’ più grandi di lei.

Le tre si volevano molto bene, sentendosi parte l’una dell’altra.

Quando qualche screzio le animava lottavano tra loro giocosamente, come gattine, per fare pace subito dopo come se nulla fosse successo e la sera, per addormentarsi, si raccontavano a vicenda meravigliose fiabe di ninfe e abitanti del bosco.

 Così Psiche cresceva e cresceva e un bel giorno iniziò a sentirsi diversa.

I suoi capelli erano più folti e luminosi e il suo corpo era più morbido e tornito. Il ventre le inviava lievi fitte e lei si sentiva liquida.

Andò da sua madre che l’accolse con un radioso sorriso. Raccolse tutto ciò che aveva tenuto da parte per quell’occasione speciale che aspettava già da qualche tempo e, tenendola per mano, accompagnò la figlia dalle anziane del villaggio.

“Ti stavamo aspettando, giovane Donna”, le disse la bella Signora che accolse lei e sua madre.

“Ti porteremo in un posto magico e il tuo corpo non sarà il solo a compiere questo importante Viaggio”.

E fu così che le anziane portarono Psiche alla grotta Sacra, mentre la prima falce di luna brillava radiosa nel cielo.

Con le fiaccole in mano uscirono dal centro abitato mentre tutto il clan osservava il loro passaggio pronunciando verso Psiche parole di augurio e benedizione; anche le sue sorelle l’attendevano ai confini del villaggio per rivolgerle incoraggianti sorrisi e sguardi luminosi.

Psiche aveva assistito in passato a questi cortei.

Sapeva che avvenivano al primo sanguinamento di una fanciulla e seguiva le anziane tranquilla e curiosa e tuttavia un po’ intimorita per il mistero di ciò che sarebbe avvenuto.

Camminarono per un tempo indefinito in mezzo ai campi, accompagnate dal canto delle civette e arrivarono in una radura, dove una fonte gorgogliava gioiosa e dove una grotta dischiudeva, amorosa, la sua profondità.

Le anziane condussero Psiche proprio nella grotta e quando entrarono, con le torce scoppiettanti tra le mani a illuminare l’oscurità, Psiche vide con meraviglia che le pareti che l’accolsero erano tutte dipinte.

Tutt’attorno a lei gli animali che più amava: gufi, api, lupi, tori e vacche, serpenti, uccelli e farfalle.

E c’erano donne che danzavano in cerchio nude, o con bellissimi manti piumati.

Non mancavano poi foglie, alberi e fiori di ogni tipo.

Sulla pietra i disegni prendevano vita alla luce delle torce e le donne, gli animali e le creature vegetali convivevano nell’armonia più totale e sembravano danzare insieme, generati da un’unica fonte.

Le Buone Dame accesero un fuoco caldo e luminoso gettando le torce su della legna pronta  per l’occasione.

Formarono un cerchio attorno a Psiche e cantarono, finchè la notte non divenne troppo buia, gli occhi della giovane troppo pesanti e le loro voci sfumarono all’unisono, come per un tacito accordo, in una nota lunga e dolce.

Nei giorni che seguirono, mentre il ventre di Psiche pulsava sempre più forte lasciandola dolorante, ma più sensibile e intuitiva, le anziane la istruirono nei dolci misteri del corpo femminile.

Si bagnarono nelle chiare acque della fonte. Impastarono il pane con la pasta madre, tutte insieme, e poi lo cossero in un piccolo forno ricavato nelle pareti della grotta.

Cantarono. Danzarono.

Andarono tutte insieme a raccogliere le erbe più rare ed efficaci, rivelando a Psiche i posti segreti in cui crescevano e i loro usi, i loro antichi nomi, il momento ed il modo giusto di coglierle e come adoperarle.

In una di quelle notti cosparsero il corpo della fanciulla con una pasta di ocra rossa, accesero un bel fuoco e con i suoi vapori avvolsero il suo ventre e i suoi genitali e Psiche si sentì leggera come l’aria, come quel fumo che le entrava nei pori e la sollevava portando la sua mente lontana dal corpo e le sembrò di vedere tutto per la prima volta e di comprendere tutto l’insieme, non più solo frammenti di orizzonte.

Ogni gesto, ogni canto, ogni danza era un insegnamento privo di parole, ma profondissimo, sulla natura femminile ciclica e tonda e sulle magiche vie da seguire nella quotidianità per armonizzarsi con la fonte stessa dell’essenza muliebre: la Dea che la tribù onorava e seguiva e di cui le Donne erano manifestazione.

Quella Dea che era vita e morte, pacifica e indomita a un tempo, legata indissolubilmente alla terra e ai suoi ritmi di crescita, decadimento e rigenerazione, quei ritmi di cui ogni Donna è custode.

Psiche visse quei giorni con intensa commozione.

Capì quanto fosse sacro e complesso il suo corpo e tutto ciò che stava sbocciando dentro di lei.

Stava diventando donna e tutta la sua vita sarebbe cambiata.

Psiche aveva già appreso molto, ma gli insegnamenti delle Anziane non erano finiti.

Quando il sanguinamento terminò, le donne portarono Psiche in una parte più profonda della grotta.

Qui le pareti erano bianche e solo un dipinto si poteva scorgere, illuminato dalle torce: una Dea e un Dio, l’uno accanto all’altra, abbracciati.

Fino a quel momento le donne avevano parlato a Psiche unicamente dei misteri del femminile ma ora, sedute in cerchi attorno a lei, iniziarono a istruirla sulle potenti energie che uniscono l’uomo e la donna e al sacro piacere che insieme possono condividere.

Psiche aveva abbracciato intimamente la Dea che aveva sempre conosciuto, e scoperto più a fondo i dolci modi di essere muliebri. Era arrivato per lei il momento di scoprire il maschile, attraverso un uomo.

Le buone dame che l’avevano istruita prepararono la grotta accendendo torce e incenso e poi si dedicarono alla loro protetta. Le dipinsero il corpo e il viso, come se avesse una maschera. Non era più Psiche, la fanciulla. Era Psiche, la Dea.

La baciarono e abbracciarono, ammiccando in modo benevolmente malizioso, e la lasciarono sola.

Psiche rimase a godersi il suo tempo, inalando con piacere i fumosi aromi con cui le Donne avevano profumato la grotta.

E dopo un tempo che non seppe definire sentì dei lievi rumori, passi incerti percorrevano il suolo ed egli arrivò.

Era snello, la sua pelle era unta con oli e anche lui sul viso portava una maschera perché, come Psiche in quel momento incarnava la Dea, così il bel fanciullo rappresentava il giovane Dio dell’Amore e del Desiderio.

Psiche intuì che anche lui, come lei, aveva vissuto un periodo con gli anziani che lo avevano iniziato ai misteri maschili come le anziane avevano iniziato lei a quelli femminili. E quel momento, il momento del loro incontro, era per entrambi il coronamento di quell’intensa esperienza.

Il ragazzo si avvicinò a Psiche lentamente, chinando la testa con reverenza.

Si accovacciò di fronte a lei e i due si guardarono negli occhi a lungo. Poi, muovendosi insieme ma senza parlare, iniziarono a sfiorarsi, a studiarsi reciprocamente, senza fretta, con gusto.

Fecero durare molto tempo quella languida danza, assaporando ogni momento, permettendo ai loro corpi di accendersi piano piano.

E così, protetti dalla calda oscurità della notte, si unirono, gioendo insieme. E conobbero l’ardente amore che può scorrere tra un uomo e una donna, un piacere sacro, capace di disciogliere i confini del corpo e avvicinare l’anima agli Dei.

Si addormentarono abbracciati. Complici come se si conoscessero da sempre, nonostante non avessero scambiato nemmeno una parola.

Quando Psiche si svegliò, era sola, e non si dispiacque di questo.

Si stiracchiò e si alzò.

Uscì all’aperto e andò a lavarsi nella fonte, adorando l’acqua fresca che le scorreva sulla pelle.

Aspettò le anziane, come istintivamente sentiva di dover fare, e insieme a loro tornò al villaggio.

La madre e le sorelle l’accolsero a braccia aperte.

Mentre svolgevano insieme i lavori femminili, Psiche raccontò loro tutto e parlarono e parlarono, scambiandosi sentimenti, emozioni e sapere, affiatate come non mai.

Psiche era una donna ora, il suo ruolo nella comunità era cambiato.

Tuttavia i giorni passati nella grotta avevano fatto maturare in Psiche il desiderio sempre più grande di servire la Dea in modo più profondo.

Comunicò questa decisione alla madre e alle sorelle, e insieme ne parlarono alle anziane che, sorridendo, le dissero di recarsi al tempio. Se avesse superato le prove che la Dea le avrebbe imposto, il suo desiderio sarebbe stato esaudito.

Psiche, radiosa, senza null’altro se non il suo corpo e i vestiti che aveva indosso, si presentò quindi al santuario rotondo della Buona Dea degli orti e dell’Amore.

Le ancelle la accolsero con gentilezza e la prepararono al suo ingresso nel tempio e a tutto ciò che questo atto comportava.

Le tolsero di dosso le vesti e la fecero distendere su un giaciglio di canne.

Lentamente, intonando melodiosi canti, iniziarono a massaggiarla con vigore, con le mani cosparse di olio odoroso.

Massaggiarono i suoi piedi, dito per dito, e la palma del piede, il collo e le caviglie sottili.

Poi passarono alle gambe tornite, i pilastri del suo corpo sacro.

I fianchi rotondi, i seni e poi le braccia e le mani, il collo e anche il viso.

Massaggiarono ogni lembo della pelle di Psiche. E al tocco deciso ma morbido delle loro mani Psiche sempre di più si scaldava, il suo corpo prendeva vita e consapevolezza in un modo diverso rispetto a quando si era unita al fanciullo solare.

Psiche sentiva ogni parte di se stessa nella sua completezza e allo stesso tempo sentiva il legame e l’unione che vi era tra esse.

Quando le sacerdotesse ebbero finito di toccare l’intero corpo, allora iniziarono a concentrarsi entrambe sul ventre della fanciulla.

Le loro mani compivano movimenti circolari, spiraleggianti. Le loro dita picchiettavano leggermente la pelle e Psiche sentiva un languore sempre più grande accendersi in lei, risvegliarsi come un serpente arrotolato che si srotola e inizia a salire, ardere come fiamma nel calderone.

Poi le sacerdotesse presero dei tondi e lisci rametti di betulla e con questi iniziarono a strofinare il corpo della giovane. Era un tocco più ruvido delle loro morbide mani, ma era dolce e Psiche si destava sempre di più, si scaldava, si rinvigoriva e la sua coscienza svaniva piano piano, lasciando posto all’emergere della sua più intima natura.

Con i rametti di betulla strofinarono e picchiettarono il suo grembo e la fiamma che ella custodiva si faceva più stabile.

Psiche si sentiva libera, serena, aperta, semplice e naturale.

Le sacerdotesse finirono lentamente il loro massaggio rituale, la loro voce si affievolì fino a sfumare nel silenzio e allora restarono a vegliare la grazia di Psiche, lasciandole il tempo di assaporare quelle sensazioni risvegliate dal rituale, il suo istinto luminoso e spontaneo.

Dopo qualche tempo Psiche aprì gli occhi, purificata e libera dalle tensioni.

Le due ancelle le spazzolarono i capelli, carezzandola lievemente.

I loro occhi incontrarono gli occhi di Psiche e le fanciulle si sorrisero radiose.

Fecero alzare la loro sorella e la vestirono con una stoffa leggera, morbida e trasparente, lasciandole i piedi nudi.

Quando tutto fu pronto, presero Psiche per mano e la condussero fino alla sala della Dea dove avrebbe dovuto proseguire da sola il suo cammino.

Arrivate davanti alla porticina baciarono entrambe Psiche sulle guance e se ne andarono.

Psiche, che ormai era una giovane donna, sebbene fosse minuta era un po’ troppo alta per la porticina di legno tonda che segnava l’ingresso nelle stanze della Dea.

Così si chinò, sino a diventare piccola piccola, dischiuse la porta, ed entrò.

Fu subito avvolta da luce, calore e profumo fresco di fiori e una voce melodiosa le parlò:

“Eccoti giunta a me, bambina. Ho seguito tutti i tuoi passi.

Ho gioito del tuo primo sangue e della tua bella unione col mio figlio divino, il mio solare compagno. Sono così fiera di te!

Tutte le donne del villaggio sono mie sacerdotesse. La loro vita spontanea, libera e potente è sacra e magica. Loro sono la mia immagine. Io sono in loro. Mi onorano in ogni loro gesto.

Ma tu vuoi conoscere un Amore diverso, che comporta molte responsabilità. Vuoi servire me e tutta la tua comunità, mostrando loro la mia presenza ogni giorno.

Per far questo sono ardue le prove da superare.

Ma io ti conosco, vedo il coraggio nel tuo cuore. So che ce la puoi fare.

Non per questo le mie sfide saranno meno dure”.

Psiche trepidava, con il cuore che veloce le batteva in petto.

“Come prima cosa, ecco questo mucchietto di semi. Devi prima di tutto dividerli, poi unire tutti quelli dello stesso tipo e infine andare a raccogliere le piante che da essi germogliano.

Buona fortuna figlia mia. Ci vedremo allo spuntar dell’alba e se avrai agito bene, una nuova prova ti attenderà”.

Psiche si mise subito a eseguire il compito affidatole dalla Dea. Canticchiando divise i semi e poi, alla luce della luna, uscì per i campi, prendendo le vie segrete che le anziane le avevano mostrato, e andò a coglier grano, orzo, miglio e i bei papaveri rossi.

Compiendo con attenzione quei semplici gesti, Psiche si rese conto come non mai di quanto la Dea fosse Terra e nutrimento, e di come generosamente si donava agli uomini e alle donne dei villaggi.

Questa consapevolezza si radicò in lei e tornò al tempio felice.

La Dea fu molto soddisfatta.

“Molto bene, anima bella. Sei pronta per la mia seconda sfida.

Devi sapere che le sacerdotesse custodiscono un recinto con arieti selvatici. Sono indomiti e il loro manto è oro puro. Vorrei che tu me ne portassi un ciuffetto. All’alba vedremo cosa accadrà”.

Psiche era un po’ intimorita da questa nuova prova, ma era decisa a superarla.

Si recò al recinto sacro.

Gli animali erano bellissimi, splendevano e il loro portamento era nobile ed elegante.

Rimase a osservarli a lungo e si ricordò dell’incontro col suo giovane amante. Erano selvatici come quelle bestie, e si erano avvicinati con cautela l’uno all’altra, studiandosi con pazienza. Decise di fare lo stesso con gli arieti dorati, che scalpitavano e sbuffavano.

Si avvicinò poco per volta, dando loro il tempo di abituarsi alla sua presenza e al suo odore.

E intanto anche lei comprendeva come fosse importante avere dentro se stessa la medesima forza selvaggia e ardente di quegli animali solari.

Quando riuscì a toccarne uno, capì che anche loro erano un’incarnazione della Dea, che non era solo dolcezza e gentilezza ma anche potenza e decisione e poteva essere aggressiva se veniva violata e se le sue creature avevano bisogno di essere difese. Cercò di trovare dentro di sé quel modo di essere forte e allora riuscì a giocare con tutti gli arieti presenti nel recinto. Non voleva domarli, solo partecipare alla loro natura selvatica. Riuscì quindi a prendere vari ciuffetti d’oro e all’alba li portò nella sala della Dea.

“Hai compiuto un importante pezzo del tuo viaggio, mia coraggiosa figlia.

Ora eccoti questa brocca. Devi colmarla fino all’orlo con l’acqua della fonte segreta e mentre torni devi stare bene attenta a non versarne nemmeno una goccia. Se riuscirai, ti aspetta l’ultima prova”.

Psiche camminò fino alla fonte sacra vicino alla grotta magica. Era un cammino lungo e il terreno della stradina era diseguale. Non sarebbe stato facile trattenere tutta l’acqua nel boccale.

L’acqua era fredda e gorgogliante. Le sembrava di riudire le voci delle anziane narrarle della capacità generativa femminile e della Dea come principio fondante della loro comunità.

Mentre riempiva la brocca, Psiche si sentiva colmare lei stessa da quell’acqua limpida. In quanto donna, era custode della femminilità, della capacità di dare la vita e delle leggi della Dea, che la vita la governavano. Trattenere l’acqua nella brocca era come non disperdere mai l’antico sapere femminile. Si pose quindi la giara sulla testa e meditando profondamente su ciò che aveva imparato tornò al tempio avendo superato la prova.

La Dea era raggiante.

“Ora ciò che ti attende è la prova finale. Ti condurrò nell’oscurità della morte. Da sola dovrai trovare la via del ritorno”.

Ed immediatamente Psiche si trovò nelle tenebre.

Iniziò a camminare e si accorse che il sentiero che stava percorrendo era in discesa. Era freddo attorno a lei, silenzio assoluto. Ebbe paura, non sapeva dove andava, non conosceva il posto in cui si trovava e dubitò di essere davvero morta a sua volta e di non poter più tornare al villaggio, dai suoi cari e di non poter mai diventare sacerdotessa.

In quel momento però percepì tanti flebili rumori attorno a lei e capì che in quell’oscurità c’era tanta vita.

Iniziò allora a pensare all’inverno, in cui tutto sembra non poter crescere mai più. In realtà la natura dormiva, conservando le forze per la futura primavera. Era proprio nell’oscurità della terra che i semi potevano essere vivificati per fiorire in superficie.

La Morte era null’altro che uno dei tanti volti della Dea dell’Amore. Era una gestazione e sempre era seguita dalla rigenerazione.

Seguendo questi pensieri, Psiche camminò e camminò e si ritrovò ben presto a salire verso la luce, verso il suo villaggio, verso la vita.

Si ritrovò nella grotta incantata.

Era felice e piena dell’Amore della Dea.

Uscì, pensando di dirigersi verso il tempio e invece all’entrata della grotta trovò le sacerdotesse e tutte le donne del villaggio, comprese sua madre e le sue sorelle.

In cerchio attorno a lei suonavano e danzavano e a turno le andavano vicine per portarle fiori e inondarla di profumi.

Aveva superato tutte le prove, aveva acceso il fuoco sacro dentro di lei e tutte le sue sorelle la festeggiavano.

Aveva conosciuto il piacere e poteva goderne quando e se avesse voluto. Ora aveva la capacità di dare la vita e anche il potere di toglierla se necessario, essendo consapevole della naturalità di quel passaggio, senza provarne più timore.

Aveva sperimentato la Dea e tutte le possibilità che essa offriva all’essenza femminile.

Psiche si sentiva traboccare d’Amore, quell’Amore assoluto che comprende lo scambio tra una donna e un uomo, ma che è anche l’Amore che unisce le donne ed è l’Amore per la natura e le sue creature, ed è l’Amore della Dea.

L’Amore cresceva e cresceva sempre di più in Psiche e lei e tutte le donne lo celebrarono come una figlia nata dalla loro speciale magia, dandogli il nome di Voluttà, un’appassionata illuminazione di Conoscenza.

 

 

 

 

COMMENTO A PSICHE

 

Ho sempre molto amato la favola di Amore e Psiche.

La protagonista è una fanciulla che supera numerose avversità per ricongiungersi con il suo perduto Amore.

Ho sempre visto questa favola come una parte molto importante della nostra eredità femminile.

Era, ai miei occhi, un racconto sull’Anima e una descrizione poetica del percorso che noi donne moderne dobbiamo affrontare nella nostra vita di tutti i giorni.

Ho letto e riletto Amore e Psiche più volte e, abbagliata da questa mia visione, non mi sono mai accorta di tutti gli strati patriarcali che appesantivano la storia e che, pagina dopo pagina, svilivano la figura non solo dell’eroina, Psiche, ma di tutte le donne.

Poi un bel giorno, ho avuto l’idea di far leggere un commento che avevo scritto proprio su Amore e Psiche a un’autentica fata madrina che ha alzato per me il velo illusorio che copriva l’autentica bellezza e il primigenio potere di questa fiaba e allora, finalmente, ho compreso.

 

La fiaba di Apuleio non era una narrazione per le donne, ma una narrazione contro le donne.

Le figure femminili da lui ritratte sono caratterizzate da meschinità e gelosie.

A cominciare dal rapporto tra Psiche e le sue sorelle, basato unicamente su cattiveria e falsità, che è tristissimo. Esattamente quello che ci vuole per minare la fiducia tra sorelle, e non solo di sangue.

Un espediente letterario messo in atto per disgregare il gruppo coeso, armonico e forte dell’antico femminino.

Persino Venere, uno dei radiosi volti della Grande Signora Primigenia, è caratterizzato da modi di essere disarmonici, irosi e meschini.

Per contrasto, il matrimonio è enfatizzato come unica vera possibilità di realizzazione e di felicità per una donna e in particolare si denota il costume di far sposare ragazze giovanissime con uomini molto anziani. Crudeli matrimoni contratti unicamente per interesse, che privavano le fanciulle di qualsiasi possibilità di scelta e di ogni possibilità di vivere e percepire un amore più profondo e vero.

Amore stesso è una figura ambigua.

Da una parte la sua naturale sessualità è vista come qualcosa di negativo che sia Giove che Venere cercano di imbrigliare. Si potrebbe quindi pensare che il Giovane Dio sia riuscito a trattenere ed esprimere i suoi tratti più incontaminati. Ma anche qui Apuleio non si smentisce e il suo Amore tratta Psiche come una povera sciocca, una stupida ingenua che ha bisogno di essere guidata in ogni suo passo. Tra loro non c’è uguaglianza ma solo la sottomissione di Psiche a un Amore abbruttito.

Infine la morte è qualcosa da temere, che non si può guardare e la soluzione di tutta la vicenda è posta nelle mani del Dio Giove.

Divenire consapevoli di tutto questo può far male.

Dentro di me però si è acceso un lume ed è iniziato così un viaggio davvero emozionante.

Come fare a ridonare a questa fiaba tutto l’antico potere che doveva possedere?

 

Ho iniziato a rileggere febbrilmente il testo di Apuleio.

Ed era tutto lì, davanti ai miei occhi. Ben camuffato, ma esistente.

Psiche era molto amata da tutti, tanto che tutta la città si ferma quando vengono preparate le nozze funebri ordinate dall’oracolo.

Ri-scrivendo la storia, il dolore e le lacrime le ho trasformate in gioia e il corteo funereo l’ho trasformato in un attraversamento rituale della città. E nel nuovo contesto che mi si veniva creando sotto agli occhi, anche il rapporto di Psiche con la madre e con le sorelle l’ho completamente capovolto. Non più costruito sull’invidia e sulla meschinità, ma su veri sentimenti di sorellanza: gioco, sostegno, condivisione.

Il palazzo d’Amore nel fitto del bosco cristallino e vicino a una sorgente, tutto adorno di fregi rappresentanti animali, nel quale Psiche ascolta voci impalpabili, è diventato una grotta antica dalle pareti dipinte con scene sacre, come quelle che le nostre antenate e antenati preistorici ci hanno lasciato in dono. In questa caverna Psiche ascolta gli insegnamenti delle anziane del villaggio e riceve le sue prime iniziazioni al femminile, forse proprio in occasione del suo primo sanguinamento.

Il rapporto di Psiche con Amore è il culmine di questa prima iniziazione della fanciulla, il suo approccio con il piacere sacro in cui Psiche rappresenta e incarna la Dea e Amore il Dio;

ed ecco che i due hanno i volti trasfigurati, portano maschere (Psiche non può guardare il volto di Amore), perché non sono i loro ego a unirsi nell’atto sacro ma le loro Anime divine.

Non è un atto finalizzato al possesso, al matrimonio, alla generazione di figli.

È’ un atto sacro, che unisce due anime e due corpi e che eleva verso il divino.

Dopo questo primo, intenso momento, è psiche stessa a volersi recare al tempio della Dea Venere, che è la Bella Signora degli orti e dei giardini, Colei che fa sbocciare la Primavera, l’Antenata più adatta a presiedere all’Iniziazione di una fanciulla.

Le prove che Psiche dovrà superare seguendo le istruzioni di Venere sono finalizzate alla conoscenza della natura, di se stessa e al riconoscimento di aspetti diversi ma tutti fondamentali della Dea Ciclica. Sono insegnamenti che cambiano radicalmente il suo modo d’essere e rappresentano il cammino di ogni donna sulla via della Consapevolezza.

 

Le ho ricostruite con questo intento.

Psiche alla fine è riunita alla sua comunità. Ha acceso il suo fuoco interiore, che nessuno potrà mai spegnere.

Conosce l’Amore ed è libera di viverlo con chi desidera.

Ora è fertile, e può dare la vita ma può portare anche la morte, sempre consapevole della naturalità del processo, senza paura del passaggio.

Ciò che Psiche farà nascere ogni giorno è una magia tutta femminile, la magia della voluttà, del piacere, della pace, della libertà e della condivisione.

 

 

valerie

 

 Valerie Melissa Aliberti nasce a Casale Monferrato il 2 Aprile 1984, ma vive da tutta la vita a Vercelli.Inizia molto presto ad appassionarsi alle narrazioni mitologiche di varie culture trovando in esse una costante ispirazione.Continua i suoi studi in ambito mitologico, archeologico e letterale con un particolare sguardo verso i temi dell’eterno femminino.Ha scritto numerosi articoli dedicati a questi argomenti, pubblicati su siti internet e su riviste del settore.

 

Ha pubblicato due libri di poesie incentrati sulla Grande Madre: “La lanterna magica” con Phasar Editrice e “ I fiori di mezzanotte” con le edizioni Firenze Libri.

 

Tiene un blog dedicato a questi temi http://www.matrikalia.wordpress.com

 

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Intervista a Martha Toledo Martinez http://www.associazionelaima.it/blog/intervista-a-martha-toledo-martinez/ http://www.associazionelaima.it/blog/intervista-a-martha-toledo-martinez/#comments Thu, 09 May 2013 10:22:23 +0000 http://www.associazionelaima.it/?p=1494  

Martha Toledo Martinez Foto di Salvatore Catalano

Martha Toledo Martinez
Foto di Salvatore Catalano

Pubblichiamo l’intervista di Ilaria Beretta per AAM TERRANUOVA a Martha Toledo Martinez, esponente della comunità matriarcale di Juchitan, traduzione di Sara Ramadoro.

 

 

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