Dopo il convegno di Torino, l’intervento che non ho fatto

 di Alberto Castagnola

AlbertoCastagnola

 

Dopo la relazione di Pepe Rodriguez, effettivamente molto tradizionale, non ho potuto che condividere le riserve di Luciana Percovich, e ritengo opportuno precisare ancora di più quali sono i limiti di una analisi di quel tipo, perché è una metodologia molto diffusa e molto pericolosa ( anche se spesso adottata in modo più o meno approfondito in molte sedi accademiche).

In termini logici, cosa viene fatto? Si sceglie un fenomeno (l’agricoltura irrigua o un salto tecnologico), lo si descrive come dovrebbe essere avvenuto in un determinato periodo di tempo e in una regione geografica, e poi si dà come per scontato che quel fenomeno da quel momento è diventato caratteristico dei processi di evoluzione dell’umanità intera. Evidentemente siamo in presenza di un salto logico (spesso giustificato per l’esigenza di contenere le analisi nei limiti di una relazione ad un convegno), per almeno due motivi: a) non è detto che da quel punto e da quel momento il fenomeno si sia diffuso in modo omogeneo (cioè con tempi analoghi e caratteristiche molto simili in tutte le altre regioni geografiche), anzi è probabile che in altre aree esistessero situazioni talmente diverse da generare processi completamente differenti e che coprono periodi non paralleli; b) nel periodo indicato (peraltro in genere comprendente centinaia quando non migliaia di anni) in altre zone possono evolvere culture con altre caratteristiche, che magari esprimono fenomeni di analoga portata, ma che non sono confrontabili con i primi evidenziati.

A parte la mancanza di analisi sincroniche e di confronti a più ampio raggio (che invece, guarda caso, Marija Gimbutas ha cercato di fare, pur non disponendo dei mezzi e delle risorse che sarebbero stati necessari anche all’epoca), questa metodologia presenta dei rischi di particolare gravità in quanto, una volta evidenziati i punti più alti di fenomeni accuratamente scelti, diventa possibile collegarli fra loro ed evidenziare una “storia” che può essere la storia delle popolazioni e delle aree successivamente diventate dominanti; questa pseudo-storia permette di trascurare le restanti parti del pianeta e delle popolazioni considerate meno interessanti.

Se poi i fenomeni prescelti sono selezionati tra quelli che caratterizzeranno nel futuro le istituzioni patriarcali o comunque dominanti (anche geograficamente), il gioco è fatto e le donne sono espulse dalla storia, oltretutto attribuendo alle popolazioni guerriere dei meriti originali che spesso sono solo il risultato di espropriazioni sistematiche di capacità ed arti femminili

Gli esempi per dimostrare la scorrettezza profonda di questa metodologia sono numerosissimi e richiederebbero delle analisi molto complicate per articolare nel tempo e nello spazio fenomeni spesso complessi; mi limito a evidenziare dei casi ben noti. Tutti sanno che le Americhe “entrarono nella storia” solo con Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci; le popolazioni “scoperte” avevano percorso una ricca evoluzione per secoli, ma vennero decimate e spogliate del loro patrimonio culturale prima di poter loro attribuire il giusto valore. Analoghe considerazioni si possono fare per la Cina o per i Vichinghi, sempre restando nella storia che conosciamo. Ma quando si spinge lo sguardo nella preistoria, emergono subito delle culture che attribuivano compiti e valori analoghi a uomini e donne impegnati per lunghi millenni nella sopravvivenza e che avevano raggiunto elaborazioni culturali e spirituali di alto livello ben prima delle irruzioni di altre popolazioni armate e violente. Le ricerche archeologiche più recenti (un esempio: Gobekli Tepe nell’attuale Turchia) evidenziano l’esistenza di luoghi di culto già diecimila anni fa e molto resta ancora da scoprire in periodi che le analisi accademiche hanno per decenni confinato nella più assoluta disumanità.

 

 

Un secondo aspetto mi sembra essenziale sottolineare, anche perché riguarda in particolare la tecnologia, fenomeno che con i dovuti distinguo può essere rintracciato praticamente in tutti i luoghi e in tutte le epoche, ma che è diventato fondamentale negli ultimi decenni. Quando si usa la metodologia volta a individuare i salti tecnologici ritenuti più importanti, è normale che si facciano emergere le scoperte scientifiche e le applicazioni tecnologiche che più hanno caratterizzato uno spazio o un periodo abbastanza definito; ad esempio le auto nel secolo scorso o i telefonini in questo. In questo modo però si evidenziano le tecniche a maggior diffusione (specie se imposte dalla struttura economica dominante), lasciando in ombra quelle contemporanee e magari di maggiore valore scientifico, che però rimangono sconosciute alle masse popolari (forse anche perché non si materializzano in oggetti che possono alimentare un vasto mercato).

L’aspetto più grave però è un altro. Specie nell’ultimo secolo e mezzo, gran parte delle tecnologie (magari con una sfasatura di uno o più decenni) hanno fatto emergere rilevanti danni all’ambiente e per la salute umana, conseguenti alla natura stessa delle tecniche utilizzate. Si pensi alla chimizzazione dell’agricoltura e all’inquinamento delle acque derivanti dai prodotti chimici necessari per la diffusione della cosiddetta “Rivoluzione Verde” (diffusione massiccia di semi ad alto rendimento che però richiedevano fertilizzanti, pesticidi e diserbanti chimici) oppure alla diffusione di residui di plastica sia sulla terraferma che negli ambienti marini (le “isole” di plastica dell’Oceano Pacifico), ma gli esempi sono ormai decine e decine. In altre parole, si evidenzia per prima cosa la “nuova utilità” degli oggetti di largo consumo, ma si trascurano le conseguenze da essi indotte sulla natura e sulla salute di essere umani ed animali; le analisi e la storia sono nuovamente formulate usando schemi che esaltano l’innovazione e l’utilità di ogni tecnologia, mentre non vengono previste o sono accuratamente rimosse le possibili conseguenze per il pianeta e i suoi abitanti.

Anche in questo caso la storia riguarda il sistema economico e le linee di ricerca scientifica dominanti, mentre gli effetti sulla natura e gli esseri viventi sono incredibilmente trascurati e anche quando le notizie relative ai danni e alle distruzioni finalmente emergono, vengono trattate in modo da sminuirne l’importanza e da evitare l’adozione di qualunque misura di salvaguardia (non parliamo di quelle di prevenzione o di radicale bloccaggio delle produzioni, delle quali non vi è ancora quasi traccia).

Quindi se si volesse essere obiettivi e minimamente cauti, la storia delle scoperte scientifiche e delle applicazioni tecnologiche dovrebbe sempre essere accompagnata da informazioni e dati relativi alle conseguenze nefaste che potrebbero accompagnarle. Anche da questo punto di vista, la storia delle donne risente in maniera terribile dell’adozione delle metodologie qui criticate, perché è ormai abbastanza chiaro che nelle ere in cui i valori femminili erano valorizzati e rispettati, gli equilibri con i meccanismi della Natura e la prevalenza delle cure verso gli esseri umani erano garantiti. Negli ultimi secoli, invece, da quando la tecnologia è stata completamente sottratta alle loro mani e al loro controllo, le conseguenze hanno colpito dolorosamente gli esseri viventi e hanno profondamente turbato i meccanismi naturali e le attuali prospettive sono sicuramente ancora più drammatiche.

Credo sia evidente che non si sta elogiando “il buon tempo antico”, in modo cieco e acritico. Invece dovremmo essere tutti molto interessati a ristabilire, nell’immediato futuro, un’incidenza molto maggiore delle visioni e delle relazioni che solo la componente femminile (compresi quindi alcuni uomini sensibili e autocritici) è in grado di elaborare. La manutenzione del mondo è urgente e imprescindibile, se vogliamo evitare di cedere il passo ad altre specie, più in grado di noi di convivere con il Pianeta Terra. Se si accetta questa impostazione, è chiaro che alle donne più mature e sensibili si apre una prospettiva di elaborazione e controllo di tecnologie “dolci”, accuratamente testate in anticipo, selezionate in base al principio di precauzione specie riguardo alla salute, attente al riciclo e al reimpiego e sorvegliate senza sosta per evitare morti bianche ed effetti negativi di lungo periodo.