Ad EST là dove giace la Prima Donna violata dagli uomini del Patriarcato in preda al veleno della Rabbia, ci sono i nuovi uomini che si scusano e lavano le ferite guidati dalla Compassione e da un cuore puro come il cristallo. E io ringrazio questi uomini.A SUD là dove giace la Prima Donna picchiata dagli uomini del Patriarcato in preda al veleno dell’Arroganza, ci sono i nuovi uomini che accarezzano i lividi e si impegnano a trattare le donne e tutti gli esseri con Equanimità. E io ringrazio questi uomini.
Ad OVEST là dove giace la Prima Donna uccisa dagli uomini del Patriarcato in preda all’Ossessione e alla Brama di possesso, ci sono i nuovi uomini che piangono il cadavere e imparano ad agire secondo le regole del Discernimento e degli effetti delle proprie azioni. E io ringrazio questi uomini.
A NORD là dove rimangono le ceneri della Prima Donna bruciata dagli uomini del Patriarcato in preda alla Gelosia, ci sono i nuovi uomini che cantano ai fantasmi e respirano i segreti della vita ciclica e del Cambiamento. E io ringrazio questi uomini.
Al CENTRO là dove giace la Prima Donna senza Storia, sfinita dall’Annientamento della mente patriarcale che ogni cosa ha diviso, ci sono le nuove donne e le vecchie donne intorno all’Albero della Vita, Madre di Ogni cosa, Nutrice che congiunge il cielo con la terra. I nuovi uomini non fuggono, si siedono sulle Radici e raccolgono le mille perle disperse in mezzo all’erba, onorando la legge della Madre. E io ringrazio questi uomini.
Postfazione di Morena Luciani Russo al libro “Per non Condannare a Morte l’Amore” di Mario Bolognese.
Testo liberamente ispirato alla pratica delle 5 Dakini nella versione di Vicki Noble.
Da artista in primo luogo. La passione per l’arcaico ha caratterizzato da sempre i miei studi e le mie ricerche, ma non sapevo ancora nulla del neolitico. Una sera ho improvvisamente disegnato una donna con uno strano viso, una grande pancia e grandi seni, non era il mio linguaggio, a quel tempo lavoravo molto con il colore e con immagini stilizzate, quella era un’immagine forte, arrivata quasi per caso. Scoprii qualche giorno dopo di avere nel ventre il mio primo figlio. Ma non fu solo un messaggio per la mia nuova vita di madre perché la stessa settimana girovagando in biblioteca notai un libro sul quale era raffigurata una donna tremendamente simile a quella che avevo disegnato. Era una delle statuine di Cipro e da lì sentii che c’era una traccia da seguire. Divorai i libri di Gimbutas, di Riane Eisler e poi quelli di Vicki Noble e Luciana Percovich, due donne che sono state fondamentali nel mio percorso intellettuale e spirituale. Mi sono avvicinata agli studi matriarcali anche grazie all’incontro con Genevieve Vaughan e alle amiche dell’Associazione Armonie di Bologna. Loro per prime hanno tradotto il lavoro di Heide Goettner Abendroth, quando ancora non esistevano libri in italiano.
Quindi sono state le tue ricerche sulla spiritualità femminile a guidarti?
Sì, assolutamente. La spiritualità femminile è ri-nata verso la fine degli anni ’70 dello scorso secolo quando in ambito archeologico, antropologico, storico e artistico è emersa la documentazione di un tempo in cui le donne erano onorate come emanazioni della Signora della vita, cioè un principio femminile che era molto più antico dello Zeus olimpico e del Dio Padre monoteista. In tutto quel fermento di scoperte sulla civiltà della Dea, la domanda che molti e molte si posero fu: “se è esistita una spiritualità femminile di cui le donne erano viste come le depositarie ancestrali, qual era, come era fatta la società in cui questa spiritualità si inseriva?”. Chi comincia un percorso di spiritualità femminile e si immerge nella cultura della Dea si ritrova prima o poi a farsi certe domande e allo stesso modo chi studia le società matriarcali non può negare la spiritualità femminile, sono due discorsi profondamente collegati. Però il termine “matriarcale” era appunto molto discusso, non eravamo sicure di volerlo usare e da lì che nacque l’idea di “Culture Indigene di Pace”.
Sentivo che era importante dare voce a chi in queste società ci vive, anche per confrontarci rispetto alle idee che noi occidentali ci eravamo fatte in merito. Così attraverso la collaborazione con Luciana Percovich, Sarah Perini e Daniela Deganabbiamo costruito le basi per dar vita al convegno. Ci sembrava bello creare un’occasione nazionale per radunarci, conoscere e discutere anche con chi i valori matriarcali cerca di portarli nella società necrofila in cui viviamo.
Laima e il Convegno sulle culture indigene di pace, nel 2012, hanno portato per la prima volta in Italia delle rappresentanti del popolo Moso, anche conosciuto come il “Paese delle donne” o anche popolo senza mariti (e senza mogli). Quest’anno fra i numerosi ospiti ci saranno Maria Teresa Panchillo e Yessica Huenteman Medina (Mapuche del Cile) e Malika Grasshoff (Cabilia di Algeria). Come sei riuscita a contattare queste donne e come hanno risposto all’invito di Laima?
Portare in Italia le donne Moso è stata un’impresa epocale riuscita solo grazie all’aiuto di Francesca Rosati Freeman: come si può ben immaginare non è facile far espatriare esponenti di una minoranza etnica dalla Cina. I contatti arrivano comunque quasi tutti dalla nostra rete di conoscenze internazionali, libere studiose e studiosi che si occupano da anni di questi temi. Tutte le persone che abbiamo invitato fino ad ora hanno sempre accettato con molta gioia, sono molto orgogliose della loro cultura e onorate di poterne parlare.
Nei convegni Laima ha sempre dato ampio spazio ai laboratori e all’arte, come succederà ad esempio nel workshop di sabato 19 marzo 2016 (pomeriggio) sui disegni e scritti magici delle donne berbere nordafricane oppure in quelli di domenica 20 marzo (mattina) con Susun Weed sulla medicina erboristica e sull’Arte Mapuche, fra i molti altri proposti. Perché questa scelta?
Perché non vogliamo limitarci ad una conoscenza concettuale di una cultura e se lasciamo spazio solo alle parole e a un convegno frontale rimaniamo su un livello prettamente razionale, perdiamo l’aspetto relazionale e profondo e rimaniamo in quello che noi chiamiamo “il sistema dominante”. La sfida è riuscire a comunicare sui vari livelli, far sì che la piramide si trasformi in un cerchio che comprende tutte le parti del sé e in questo processo l’arte è un canale preferenziale.
Qualche parola in più sull’arte. Penso, ad esempio, alla presenza del fotografo Pierre de Vallombreuse, che parlerà domenica pomeriggio. Cosa ti lega al suo lavoro in particolare e, in generale, perché l’arte non manca mai nelle tue attività e nelle tue ricerche?
L’arte è una chiave di accesso alla realtà nella sua interezza. In una società che riscopre il sacro nella materia e nella terra, l’arte tornerebbe al suo posto, portando bellezza e armonia nel quotidiano, farebbe parte del processo di celebrazione della profondità della vita e non l’effimera superficie o lo specchio di questa società maschilista e violenta. Quando ho visto il lavoro che Pierre ha fatto su alcune società matriarcali dell’Asia, sono rimasta colpita dalla sua capacità di cogliere l’essenza di queste culture e sono molto curiosa di sentire il suo punto di vista di uomo. È importante imparare a “rimatrizzare” la realtà, come dice l’attivista indigena Bernedette Muthien ed è necessario che donne e uomini portino entrambi il proprio contributo in questa direzione.
Estratto dall’intervista a cura di COMUNE-INFO,
per leggere l’intero testo clicca qui.
Nel marzo scorso, dopo il convegno, è uscito il tuo libro Donne Sciamane (Ed.Venexia). Perché gli antropologi parlano poco di sciamanesimo femminile?
Come spiego nel libro bisogna considerare il problema sotto due aspetti: quello interpreatativo e quello storico. Gli antropologi che si sono inizialmente occupati di sciamanesimo erano perlopiù uomini e hanno quindi focalizzato i loro studi sulle caratteristiche maschili, come la malattia iniziatica o il volo magico, un po’ perchè le donne difficilmente rivelavano il loro sapere sacro agli uomini, un po’ perchè nella maggior parte delle società analizzate le donne non “apparivano”, non avevano potere politico. Quindi si è preferito chiamarle guaritrici, curandere ecc., mentre gli uomini che esercitavano il potere spirituale erano Sciamani, consiglieri dei capi, se non in alcuni casi capi essi stessi. Poi bisogna considerare che lo sciamanesimo è stato considerato come la prima “religione” dell’umanità e pertanto messo in relazione con la preistoria e con quell’idea di mondo preistorico che archeologi, paleontologi e antropologi hanno costruito per noi. Banalmente è lo stesso immaginario che ha pervaso per anni film e cartoni animati, quel quadretto in cui gli uomini con la clava erano i cacciatori di grandi prede e le donne tutte dedite alla sopravvivenza morivano giovani a causa delle numerose gravidanze. In questa visione del mondo, gli sciamani erano parte integrante dei gruppi di cacciatori e quindi gli aspetti rituali, artistici, politici della società erano del tutto in mano agli individui di sesso maschile.
Ma questa teoria interpretativa è ad oggi del tutto screditata e i più antichi scheletri riesumati con paraphernalia e oggetti rituali risultano appartenere a donne! Nel libro ho cercato di analizzare tutti gli elementi che hanno cancellato la spiritualità femminile all’interno della storia.
Nella nostra cultura la donna vive scissa dal proprio corpo e questo si manifesta con dolorose patologie e con l’adesione a modelli imposti da una mentalità maschilista. Cosa ci insegna lo sciamanesimo sul corpo femminile?
Ci insegna che la spiritualità è nel nostro corpo, a partire dal nostro ciclo mestruale che ci predispone biologicamente a vivere “qui e là”, sperimentando ogni mese, fin da quando siamo ragazzine stati di coscienza non ordinari…la famosa “intuizione femminile”, che all’interno del mondo patriarcale è diventata conoscenza di tipo B. Come spiegano studiose come Camilla Power e Judy Grahn il ciclo rosso è il fondamento di tutta la ritualità umana, è il tempo, la matematica e il “tempio”. E poi c’è l’altro aspetto, il parto. La capacità di dare la vita è una diretta connessione con il mondo del mistero. In molte culture, tra cui alcuni popoli aborigeni dell’Australia, le donne non avevano bisogno di rituali o malattie inziatiche per diventare sciamane, il parto era già considerato una via preferenziale.
Tu sei anche un’artista e nel tuo libro parli ampiamente del rapporto tra arte e fenomeni estatici, che rapporto c’è tra sciamanesimo e creazione artistica?
E’ una domanda complessa, dovrei scrivere un libro solo su questo argomento, ma per usare una metafora, potrei dire che arte e sciamanesimo sono amanti sin dai primordi dell’umanità. La teoria fosfenica elaborata da Lewis-Williams, Dowson e Clottes che mette in relazione l’arte rupestre con gli stati sciamanici di conoscenza e gli studi delle neuroscienze, ha comportato un cambio di paradigma in questo campo. Se poi a questa si aggiungono gli studi di archeomitologia della Gimbutas e le analisi storico-sociologiche della Eisler, il quadro della preistoria e dell’arte cambia completamente. L’arte non aveva quasi nulla a che vedere con la caccia o con primi rozzi tentativi di esprimere un bisogno estetico innato. L’arte era al centro dei culti di celebrazione della vita, era il ponte tra i mondi e nel rapporto dialettico tra vita morte e rigenerazione le donne svolgevano un ruolo fondamentale. Erano sciamane, guaritrici e artiste.
Dal tuo libro:
<<…sono state messe al bando tutte le sostanze di origine naturale che espandono lo stato ordinario della coscienza, mentre l’alcool, che crea dipendenza e alimenta personalità egoiche e violente, è assolutamente legalizzato>>. Molte sostanze psicoattive naturali sono illegali ma molte persone fanno uso di stupefacenti deleteri per il sistema nervoso e per la salute. Ancora una volta cosa ci insegna lo sciamanesimo?
Insegna a mettersi in connessione con la Vita, quella con V maiuscola. E’ da 5000 anni che viviamo in una cultura necrofila, che ha messo al bando il potere femminile, quello spirituale e quello politico. Le cose sono andate di pari passo. Le piante psicoattive sono state utilizzate da noi donne sin dagli albori della civiltà, sono piante di grande potere curativo e nelle culture sciamaniche di ogni dove, sono considerate sacre. Non creano dipendenza, ma “conoscenza” e ristabiliscono un equilibrio tra corpo, mente e spirito, così come tra donna-uomo-Natura…proprio quello che manca a questa società malata e piena di ego, che privilegia appunto sostanze pericolose e ne fa un uso ludico e sconsiderato. Per noi donne la domanda è: “vogliamo lasciare i nostri figli e le nostre figlie in preda allo spettro della droga o vogliamo tornare ad occuparci di questo argomento?”.
L’argomento eutanasia suscita sempre accesi dibattiti e non si riesce, nel nostro paese, a formulare una legge che possa lasciare libera scelta rispetto alle terapie mediche. Nel tuo libro si descrive la donna sciamana come colei che accompagna nella nascita e nella morte. Chi era l’Accoppatrice?
E’ una figura curiosa della tradizione sarda, una delle poche tradizioni italiane che ha conservato qualcosa della sua antica matrice matriarcale. Quando una persona era in preda all’agonia e non riusciva a morire, dopo vari tentativi e l’estrema unzione da parte del prete, i parenti chiamavano l’Accabbadora, una donna esperta di cose “magiche”, che sapeva dare morte immediata e traghettare l’anima dei morti nell’aldilà. Se teniamo conto che l’Accabbadora era anche una levatrice e una guaritrice, ci troviamo di fronte ad una figura di evidenti caratteristiche sciamaniche. Riguardo all’eutanasia, posso dire che è stata allontanata dal mondo cattolico occidentale, perchè, in certo senso, spezza il “patto di vita stretto con Dio”, ma i popoli matricentrici dell’Antica Europa, di cui la Sardegna nel suo sincretismo porta ancora qualche testimonianza, non avevano questa visione delle cose, la morte faceva parte del ciclo vitale e non veniva “allontanata”. Le tombe erano piene di simboli di rigenerazione e in molti casi, le ossa dei propri antenati e delle proprie antenate venivano sepolte sotto il pavimento della cucina.
Rashida Manjoo relatore speciale dell’ ONU per la violenza contro le donne ha definito femminicidio cio’che sta accadendo nel nostro paese. Cosa ne pensi?
Penso che sia il termine giusto e che sia assolutamente necessario da parte delle legge italiana e dei media, dare un nome appropriato a questa tragedia. Dall’inizio dell’anno si contano 73 omicidi di donne, tutte ammazzate da parte di mariti e compagni, perchè avevano in qualche modo “reclamato” in maniera diretta o indiretta il loro bisogno di libertà. Il problema è complesso, io sento però che questa crescita di episodi violenza sulle donne, sia il colpo di coda del patriarcato…il potere femminile si sta espandendo sulla terra e c’è qualcosa nella mente patriarcale che cerca di fermarlo. Come associazione Laima stiamo preparando un grande progetto di educazione alla partnership, perchè crediamo che sia veramente importante ri-educarci tutti e tutte ad una visione diversa della cose e delle relazioni.
Estratto dall’intervista di Sonia Sion per Passaparola Magazine. Per leggere intervista completa cliccare QUI.